Sono in molti a ritenere ormai superata la fase della più grave emergenza istituzionale in Italia e a considerare chiusa la parentesi degli anni di piombo del terrorismo e della legislazione eccezionale. Ci si interroga da angolature diverse - politiche, giuridiche, sociali, umane e spirituali - sul modo più efficace di affrontare gli anni del post-terrorismo.
In particolare ricorre spesso il tema dei "pentiti" e dei dissociati, a proposito del quale sembra convergere da varie sponde una tesi di fondo, che cioe' questa categoria di detenuti meriti una nuova particolare attenzione da parte dell'opinione pubblica e del legislatore. Consapevolmente o meno, numerosi interventi hanno finito con il dar corso a una vera e propria campagna di opinione, gestita da un fronte eterogeneo, armato di argomenti disparati, facile alle dimenticanze, a volte incline a cortocircuiti fra i diversi aspetti del problema. Così quell'area politica che ha sempre considerato i terroristi "compagni che sbagliano" e che ha fatto proprio lo slogan "ne' con lo Stato ne' con le BR" si trova affiancata da esponenti dell'intellighenzia laica, da autorevoli singoli cristiani e interi movimenti ecclesiali a parlare di "fine dell'emergenza" e ad invocare una sorta di abrbaccio collettivo tra terroristi e societa'. Naturalmente gli strumenti e le soluzioni giuridiche proposte sono diverse: si va dallo sconto di pena generalizzato per i dissociati che dichiarano di rompere con il loro passato alla proposta di un'amnistia per i terroristi detenuti.
Al di là delle mode culturali e degli atteggiamenti emotivi, il problema di coloro che hanno abbandonato la lotta armata e del loro reinserimento nella società oggi esiste e va affrontato con concretezza. Questo articolo, che è stato preceduto da un dibattito promosso dalla redazione della rivista, intende fornire un contributo alla riflessione sul non facile tema, cercando di avere presenti da un lato l'aspetto istituzionale e giuridico del problema, dall'altro quello più propriamente umano che investe il delicato terreno della coscienza e dei rapporti personali. Questi due aspetti interrogano in modo diverso ma egualmente profondo la nostra responsabilità di credenti impegnati nella storia, e tanto la loro contrapposizione, quanto una trasposizione immediata e impropria di principi dall'uno all'altro, ci sembrano oggi rischi che è opportuno identificare ed evitare, se vogliamo davvero contribuire ad un nuovo tempo di pace con proposte sensate e costruttive.
All'inizio degli anni '80 cominciano a provenire da un movimento terrorista ancora forte e militarmente padrone del campo segnal di incertezza e debolezza, frutto di crisi personali e di un vivo dibattito interno sulla utilità e le prospettive della lotta armata. I sintomi di questa crisi e i primi atteggiamenti di collaborazione manifestati dai terroristi catturati inducono autorità di polizia e magistrati a sollecitare un intervento del Parlamento. Nasce così, il 29 maggio 1982, approvata a seguito di un faticoso iter parlamentare, la legge n. 304, formidabile strumento di lotta al terrorismo e prima significativa risposta dello Stato alle offerte di collaborazione di coloro che si sentivano ormai prigionieri della loro scelta armata. Passata subito alle cronache come "legge sui pentiti", essa non contiene tuttavia in alcuna sua parte l'espressione "pentito" o "pentimento".
La legge prende in considerazione tre distinti tipi di comportamento di coloro che recedono dalla scelta del terrorismo, concedendo loro sconti di pena e altri benefici processuali in misura diversa. La prima ipotesi riguarda quei terroristi che non abbiano concorso a commettere reati in esecuzione del programma criminoso del gruppo (ferimenti, uccisioni, furti...), ma che si siano limitati a commettere reati quasi "inevitabili" per chi militi in un gruppo clandestino (detenzione di armi, di documenti falsi,...). In tali casi coloro che recedono dall'accordo o si ritirano dall'associazione (dissociati) non sono punibili per i reati commessi, a condizione che forniscano informazioni sulla struttura e sulla organizzazione della banda, anche se non necessariamente sulle persone. Tale onere di informazione viene a ricondurre l'autenticità della dissociazione ad un comportamento in qualche modo obbiettivamente apprezzabile e controllabile: la legge non premia dunque dissociazioni formali o puramente silenziose. Questo primo atteggiamento viene per questo generalmente definito "dissociazione qualificata".
Diversa è l'ipotesi dei terroristi, anche macchiatisi di reati di sangue, che, oltre ad abbandonare il gruppo di appartenenza, rendono piena confessione dei delitti commessi e si adoperano ad attenuare o eliminare le conseguenze dannose di essi o ad impedirne altri. Per loro la legge prevede il beneficio di ampi sconti di pena. è il caso ad esempio di chi fa recuperare le armi che deteneva o di chi offre indicazioni utili ad impedire ulteriori reati. Se la collaborazione del terrorista giunge fino a fornire alle autorità prove decisive per la cattura di altri autori di reati o comunque per la loro identificazione, le riduzioni di pena diventano consistenti: fino alla metà, o ad un terzo nel caso di contributi di eccezionale rilevanza. A tali benefici può aggiungersi anche quello della libertà provvisoria. Queste due ipotesi che implicano un comportamento oneroso, fino alla "delazione", per l'ottenimento dei benefici, sono qualificate dalla legge come "dissociazione", e più propriamente dalla dottrina come "collaborazione attiva".
E' indubbio che la scarcerazione di alcuni terroristi riconosciuti colpevoli di gravissimi delitti sia stata comunemente avvertita come una lesione di questo principio, e quindi come una grave ingiustizia. Tanto più grave se si considera l'obbiettiva disparità fra il trattamento che il sistema ha riservato a questo tipo di imputati e quello che riserva a migliaia di detenuti comuni che attendono in carcere il processo; o se si considerano le paradossali condanne di alcuni "manovali" de terrorismo, che, non avendo materiale probatorio da barattare, non hanno potuto ottenere i benefici riservati ai "capi".
Non sono poche le norme che riconoscono rilevanza penale alla condotta susseguente il reato, e che si riallacciano così di riflesso alle finalità di rieducazione che pure sono proprie della pena (secondo quanto affermato dall'art. 27, 3º comma, della Costituzione). Oltre ad alcune norme del codice penale (la più rilevante è quella che concede sconti di pena al sequestratore che libera l'ostaggio), già nel 1979 il c.d. decreto Cossiga introduceva limitate norme premiali in materia di delitti commessi per finalità di terrorismo ed eversione. Ma indubbiamente la massima espressione del diritto premiale nel nostro ordinamento è costituita dalla legge n. 304 del 1982.
L'utilità di questi meccanismi non può però indurre a una sfrenata utilizzazione. In linea di massima si può dire che il diritto premiale non deve incentivare il ripetersi di reati, non può ridurre la pena a qualcosa di simbolico, e ad esso deve ricorrersi solo se c'e' una reale convenienza di tutta la comunita'. Non tener conto della funzione di prevenzione e della funzione retributiva della pena significa stravolgere il sistema giuridico e vulnerare i principi etici alla base della nsotra convivenza.
Le norme sui "pentiti" dunque, seppure non costituiscono qualcosa di competamente avuslo dal sistema penale generale, si giustificano solo in relazione al loro carattere di risposta eccezionale ad una situazione temporanea, eccezionale ed irripetibile. Di questo era cosciente anche il legislatore, che ne ha limitato l'operatività ad un ben ristretto periodo temporale: la legge infatti si applica solo a reati commessi prima o durante il 1982.
E' giusto invece che tutti, i cristiani per primi, cerchino di tendere una mano a questi uomini e queste donne, non per eccesso di ingenuità, ma perchè, se anche fosse un solo terrorista a voler davvero cambiare strada e collaborare con animo nuovo alla costruzione della società, sarebbe imperdonabile se trovasse il nostro indice accusatore anziche' la nostra mano tesa. Il Vangelo è chiaro in proposito: non giudicate; Gesù ci ha detto anche: ero in carcere e mi avete visitato. Questi sono doveri per i cristiani. L'amore che si estende a tutti, anche a chi non si ravvede affatto, non è un di più, ma è l'essenza stessa della loro speranza. Il perdono è un dono che essi ricevono ogni giorno dal SIgnore per i loro peccati, e che devono sempre donare agli altri. Non è un facile modo per dimenticare frettolosamente ferite ancora aperte e vuoti irreparabili. Ne' un balsamo sociale da stendere su contraddizioni e contrasti.
In questo campo però, soprattutto per noi cristiani, è facile fare una certa confusione, che invece non dovremmo permetterci di fronte al dolore delle vittime di ieri e di oggi. è necessario quindi distinguere bene. Da un lato vi è il lavoro sommerso che, nel segreto delle coscienze, il Signore (anche grazie al lavoro di alcuni sacerdoti e laici impegnati nell'assistenza ai carcerati) misteriosamente svolge, e che può portare anche a radicali conversioni; e c'e' l'impegno della comunità cristiana, che s'interroga sulla possibilità di conciliare lealtà istituzionale e spirito di carita'. Dall'altro vi è la tendenza a trasporre sic et simpliciter la categoria del perdono dall'ambito delle coscienze a quello dello Stato, sancendo con qualche provvedimento di legge l'abbraccio riconciliante. è la posizione di chi rischia di dimenticare fondamentali esigenze di giustizia e non s'avvede delle contraddizioni che emergono dal riconoscimento di uno status privilegiato ad una particolare categoria di detenuti.
Sembra allora importante ricordare che i sentimenti e le preghiere non sono ancora scelte politiche. Non bastano la fede, l'amore e la speranza cristiana nella riconciliazione fra gli uomini a indicare univocamente la difficile strada che una società complessa deve imboccare per risanare le sue ferite e garantire efficacemente ai suoi cittadini giustizia e condizioni di sicurezza e libertà, senza le quali nessuna democrazia può dirsi tale.
Ma se può essere stato necessario attenuare in casi eccezionali la pretesa punitiva dello Stato in vista dell'esigenza di evitare danni ancora maggiori, è oggi scelta ambigua e pericolosa quella di vulnerare il principio etico e giuridico della funzione retributiva della pena, e quindi della sua proporzionalità, sulla base di una scelta politica, o, peggio, sull'onda del sentimento o dell'emozione. Questa scelta non pare solo slegata dal discorso del perdono, che presuppone il riconoscimento delle proprie colpe e non certo la giustificazione politica di esse, ma è anche inconciliabile col principio della responsabilità personale, che è sancito dalla Costituzione.
Un provvedimento di "sanatoria" nei confronti dei dissociati è invocato anche in considerazione dello scarso valore rieducativo della pena carceraria. è giusto e doveroso interrogarsi - come già fecero cattolici e laici alla Costituente - sulla natura e sull'utilità del carcere e sulla sua autentica finalizzazione alla rieducazione e al reinserimento dei carcerati nella societa'. è altrettanto vero però che tale problema non si pone soltanto per una categoria di essi, ma egualmente per tutti, anche per quelli che non hanno nulla da cui dissociarsi o non possono ormai rimediare al male commesso.
Di fronte ai problemi aperti dal terrorismo e dal post-terrorismo, ai temi della giustizia e della pace, non basta limitarsi a proclami moralistici o a gesti clamorosi e gratificanti, anche se sinceri e forse fecondi: almeno gli eredi del cattolicesimo democratico, per i quali il motto di Maritain "distinguere per non separare" ha ancora un significato, dovrebbero continuare, sempre per amore degli uomini, a porsi con fatica e serietà il problema dell'uomo di fronte allo Stato. In fin dei conti, molte vittime del terrorismo sono morte proprio su questa trincea.