Elezioni in
USA
Giovanni Bachelet per Segno
nel Mondo (rivista dell’Azione Cattolica), novembre 2004

“Forse non dovrei
dirlo, ma devo: negli ultimi anni in giro per il mondo quando qualcuno
criticava le azioni degli Stati Uniti potevo dire alla gente che il
popolo americano non era cosí. Ora non posso piú dirlo,
perché la maggioranza ha dimostrato di sostenere le azioni di
Bush, e questo mi spezza il cuore.” Sono parole dell’attrice americana
Angelina Jolie, che è anche Ambasciatrice di Buona
Volontà per l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati. Anch’io, che nel mio studio ho le foto di Kennedy e Martin
Luther King e dall’11 settembre 2001 giro con un ciondolo a stelle e
strisce, mi sento come Angelina Jolie: come un innamorato deluso. Ma i
numeri sono numeri. Contrariamente a quel che tutti credevano fino
a metà della notte elettorale, Bush (New York Times del 4
novembre),
“ha trasformato in trionfo la sconfitta nel voto popolare del 2000”.
Nel 2000 Bush aveva avuto meno voti (500mila in meno) rispetto a Gore:
aveva vinto (conteggi in Florida a parte) perché, col sistema
americano, i suoi voti si erano tradotti in un maggior numero di
“grandi elettori”. Invece ora, nel 2004, oltre a una considerevole
maggioranza di grandi elettori, Bush ha avuto anche quasi quattro
milioni di voti in piú rispetto a Kerry. Ha visto aumentare in
modo
significativo i consensi fra le donne, gli elettori di origine
latino-americana, gli anziani, gli abitanti delle grandi città;
e in
misura molto modesta anche fra cattolici ed ebrei. Sembra che la paura
del terrorismo, la guerra in corso e la crociata sui valori familiari
abbia premiato Bush. Anche la faccia da funerale di Kerry ed alcune sue
esitazioni non devono averlo aiutato. Non sono certo che l’appello di
Osama Bin Laden alla vigilia sia stato ininfluente. Mah.
Prima delle elezioni, leggendo nell’email di un caro amico
missionario
la frase “Bush e Kerry si sbranano per prevalere con un identico
programma di arroganza e di morte”, mi ero parecchio incavolato;
chissà
se adesso l’autore se ne vergogna un po’. Ma sul voto americano nemmeno
quest’imprudente equivalenza ha giocato un ruolo: stavolta,
diversamente dal 2000, il candidato verde Ralph Nader (vedi grafico)
non si è presentato. E dal grafico emerge l’ultimo motivo per
non
discutere il verdetto americano: il numero dei votanti è molto
aumentato rispetto al 2000 (dal 51% al 56% degli aventi diritto, quasi
dieci milioni di votanti in piú); e questo, diversamente dalle
aspettative di molti commentatori, ha avvantaggiato Bush e non
Kerry.
Certo il presidente che all’estero ha inaugurato il terribile principio
della guerra preventiva, in ciò stigmatizzato anche dalla
propria
chiesa protestante, e all’interno ha ridotto le tasse ai ricchi,
aumentato la disoccupazione e portato in deficit un paese
precedentemente in attivo, ha solo il 52% dei voti popolari; il suo
sfidante ha pur sempre raccolto il 48% dei consensi. Cosí si
consolano
i delusi, che si scusano col mondo (il sito web
http://www.sorryeverybody.com/ è intasato dal troppo traffico e
non si
riesce quasi mai a raggiungerlo) e segnalano (foto) la coincidenza fra
gli Stati che hanno optato per Bush e quelli che nella guerra civile
americana si schierarono in favore della schiavitú. Dovremmo
ricordarlo
anche noi, che spesso confondiamo il giudizio sui governi con quello
sui popoli, che si tratti degli Americani o d’Israele. Salvo poi
sottolineare con vigore, quando si parla degli Italiani, la nostra
estraneità a Berlusconi.

Il
distacco non
troppo grande, insieme alla saggia regola dei due
mandati, non solo esclude una terza presidenza Bush, ma renderà
probabile, nel 2008, anche un cambio nelle maggioranze. Dopotutto negli
ultimi cinquant’anni ci sono stati cinque presidenti americani
democratici, di cui solo uno, Kennedy, ha entusiasmato il mondo e
trasformato in modo irreversibile i rapporti sociali interni,
schierandosi a favore dei diritti dei neri. Mentre ci sono stati ben
otto presidenti repubblicani, che, fra la Guerra Fredda e l’attentato
alle Torri Gemelle, hanno dato inizio a quattro o cinque guerre. I
primi cinquant’anni del Novecento sono stati invece dominati dai
Democratici (sette a sei), e in particolare dalla straordinaria figura
di Franklin Delano Roosevelt. Non è detto che i prossimi
cinquant’anni
non ci riservino sorprese positive. Non credo al divorzio fra
capitalismo e democrazia, temuto da Carlo De Benedetti. Non credo
neppure a quello che mi ha detto un antico comunista: noi abbiamo
capito già con Enrico Berlinguer che i Russi avevano perso la
spinta
propulsiva, quanto vi manca per capire che anche gli Americani non
credono affatto alla democrazia, ma solo ai propri interessi imperiali?
Io credo ancora, invece, nella democrazia in generale e anche in quella
americana. E quindi nel ricambio che ci sarà fra quattro anni.

Nell’immediato
però, sotto Bush, quali aspetti buoni e quali speranze possiamo
cercare di intravedere? Personalmente, avendo assistito negli Stati
Uniti alle campagne elettorali di Reagan, che anche lui tuonava contro
l’aborto e in favore della famiglia (essendo lui stesso, peraltro,
divorziato e risposato), ma poi in otto anni non ha fatto niente in
proposito, non riesco a capire, a parte ogni questione di merito,
l’ottimismo di chi anche stavolta ci ha creduto. Anche la sostituzione
della “colomba” Colin Powell con il “falco” Condoleeza Rice alla
Segreteria di Stato non sembra preludere alla svolta multilaterale,
prevista da molti commentatori anche in caso di riconferma di Bush. Ma
siccome anche la guerra in Vietnam l’ha (ingloriosamente) conclusa
Nixon, che era repubblicano, spero di sbagliarmi. Insomma sembrano
poche le speranze per i prossimi quattro anni di Bush.
Forse una: che l’Europa, poco dopo aver firmato il suo (brutto)
Trattato Costituzionale, riceva da queste elezioni americane una
salutare scossa e parli finalmente con una voce unica in politica
estera, alle Nazioni Unite, alla NATO. Abbiamo avuto tanto dagli
Americani. Forse è venuto anche per noi il tempo di dare un
contributo
originale ed efficace alla pace e all’equilibrio del mondo, aiutando
gli Americani, da amici, a ritrovare il meglio della propria tradizione
democratica. Se questo non è un sogno; se anzi, come sostiene
Jeremy
Rifkin nel suo ultimo libro, il sogno europeo sta già
subentrando al
sogno americano, allora forse gli scolari, fra vent’anni, verranno
interrogati non su Bush e Kerry, ma su Prodi e Barroso.