Scienza e fede
(per la rivista Dialoghi)

Un professore di fisica che abbia non dico impartito ma neppure mai seguito corsi di filosofia della scienza o di teologia (fatto di cui vergognarsi, non vantarsi), se invitato ad esprimersi su scienza e fede o sull’esistenza di Dio di fronte alla ragione, può solo fare appello a ricordi: dialoghi, interrogativi, riflessioni maturate fra l’infanzia e gli anni della ricerca e dell’insegnamento.

Nell’ultimo libro (Un cattolico a modo suo, Morcelliana 2008) Scoppola, a proposito della sua formazione presso l’Istituto Massimo dei gesuiti, narra che “la fede era qualcosa di solidissimo e indiscutibile, era presentata come un ponte a tre archi. Il primo arco era la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, una dimostrazione inconfutabile, le cinque prove di Tommaso variamente rielaborate, ma la sostanza era quella.”

La mia generazione, che ha fatto le elementari durante il Concilio, è stata probabilmente l’ultima ad essere sfiorata da un simile approccio. Ricordo, alle medie, un prete bravo e molto colto che, basandosi sulla minuscola probabilità che milioni di atomi possano combinarsi spontaneamente per formare una molecola di materia vivente, aveva suggerito, in un’omelia, la necessità di un atto creativo divino nel passaggio dalla materia alla vita. L’argomento scientifico mi aveva colpito e l’avevo riferito a papà. Dopo avermi ascoltato con attenzione, papà aveva con garbo osservato che, quand’anche la loro combinazione fosse avvenuta spontaneamente, sarebbe sempre rimasta da spiegare l’origine degli atomi. Non era chiaro, quindi, se valesse la pena di scomodare il Padreterno anche per l’assemblaggio della prima molecola vivente. Già sant’Agostino, milleseicento anni prima, aveva segnalato (nel De Genesi ad litteram, ho scoperto poi) che il nocciolo della questione doveva trovarsi in un unico atto creativo iniziale di Dio: su simili argomenti la Bibbia non andava intesa letteralmente (approccio ahimé dimenticato dalla Chiesa, molti secoli dopo, con Galileo), e si poteva quindi, senza alcun pericolo per la fede, immaginare che la capacità di evolversi fosse insita nel mondo, creato una volta per tutte “all’inizio dei tempi”. Del resto Dio, anziché creare uno per uno gli uomini e le donne di tutti i tempi, aveva affidato alla prima coppia il gioioso compito di completare l’opera della sua creazione, popolando la terra. Non molto tempo fa, nell’articolo “Evoluzione e creazione: una falsa antinomia” a firma Gianfranco Ravasi (Osservatore Romano 10/6/2008) e nel saggio di Fiorenzo Facchini ivi recensito, ho ritrovato concetti e riferimenti che confermano quanto appreso quarant’anni prima da papà: scoprire le formidabili capacità del creato attraverso la scienza non toglie nulla alla fede. Papà aveva aggiunto che lo stupore di fronte all’armonia e alla perfezione del creato poteva essere di aiuto, ma la base primaria della fede in Dio non era una costruzione razionalistica, bensí l’incontro con Gesú, la sua chiamata, la sua grazia: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi...”

Era questa l’aria che tirava a casa mia, e anche dagli scout, subito dopo il Concilio. Avevo quattordici anni ed ero al mio secondo campo ad Alfedena quando, il 21 luglio 1969, l’astronauta Neil Armstrong uscí dal modulo lunare e toccò il suolo della luna. Tutto il mondo seguiva l’evento in televisione, ma non noi, seduti attorno al fuoco. Al momento di andare in tenda a dormire, prima della benedizione, il nostro assistente don Franco Teani parlò dello sbarco sulla luna. Cominciò lodando il Signore con tutte le sue creature, come San Francesco: cielo sole luna e stelle, acqua e vento fra gli alberi, erba e fiori; ci fece poi osservare che in un certo senso (lo diceva anche San Francesco nel Cantico) era natura anche il fuoco intorno al quale avevamo cantato.

A pensarci bene, allora, era natura anche la tenda in cui dormivamo; era natura anche l’aereo che in quel momento solcava il cielo sopra di noi, sfidando la notte con le sue luci e la legge di gravità con i motori a reazione; era natura anche la navicella spaziale che di lí a poche ore avrebbe consentito per la prima volta ad un uomo di mettere piede sulla luna: perché il capolavoro della natura era appunto l’uomo, al quale il Creatore aveva dato la capacità di comprenderne le leggi e piegarle a proprio vantaggio, insieme alla libertà di farne buono o cattivo uso. Prima del canto finale e della benedizione ci lesse il Salmo 8, che comincia con le parole “O Signore, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!” e dice poi: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai stabilito, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi? il figlio dell'uomo, perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli e l’hai coronato di gloria e di onore: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi...”

Erano anni di pace dopo una terribile guerra; anni di sviluppo economico e grandi conquiste della scienza e della tecnica; anni di ottimismo, gioia e speranza. Gaudium et spes era il titolo dell’ultima costituzione del Concilio, nella quale, fra l’altro, venivano riconosciuti il valore e l’autonomia della scienza (e in generale del sapere e dell’arte): comprendere il funzionamento e l’equilibrio del creato, utilizzarne le risorse, migliorare la qualità della vita di tutti gli uomini, non apparivano sfide blasfeme o pericolosi attentati alla natura, ma risposta ad un compito ricevuto dal Creatore. Tale ottimismo non era ignaro dei pericoli, gravissimi, insiti nel progresso (l’atomica aveva già devastato Hiroshima e Nagasaki); ma forse proprio su alcune positive esperienze economiche e politiche del dopoguerra, nelle quali molti cristiani avevano creduto, dando un contributo non secondario (la Costituzione italiana, la costruzione dell’Europa, le Nazioni Unite, la Carta dei Diritti dell’Uomo), sembrava fondarsi la fiducia nella responsabilità dei laici e nella collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non.

Con queste premesse, piú esistenziali che filosofiche, conciliare fede e scienza mi è sempre parsa cosa normale e tranquilla, e quindi scegliere fisica all’università una delle possibili, entusiasmanti vocazioni di un cristiano: una zia era fisica, uno zio ingegnere, un bisnonno matematico, e, che io sapessi, a nessuno di loro la chiesa aveva mai chiesto di credere che la terra sia al centro dell’universo e il sole le giri intorno.

Per questo motivo, quando nei primi anni di pontificato Giovanni Paolo II promosse una specie di riesumazione del caso Galilei (mi trovavo allora all’estero a fare ricerca), l’iniziativa mi colse di sorpresa: ero convinto che da anni, nella mia chiesa, fosse pacificamente riconosciuto che essa aveva preso un granchio, mentre Galileo, dicendo che “la Scrittura non ci insegna come vada il cielo, ma come si vada in Cielo”, aveva sostanzialmente indovinato; in linea, del resto, con quanto suggerito da sant’Agostino sull’interpretazione non letterale della Genesi.

Per lo stesso motivo, quando leggo o ascolto le bordate antiteistiche (a volte solo anticattoliche) di amici e colleghi come Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi o Paolo Flores d’Arcais, o scorro il sito web dell’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) e trovo uno studente della Sapienza che esprime disgustata meraviglia dopo la scoperta che il suo professore di fisica, pur conosciuto come brava persona e ottimo docente, è cattolico e non lo nasconde (parlava di me), mi viene piú da sorridere che da arrabbiarmi. Questo tipo di posizioni mi ricorda il “materialismo volgare” del Moleschott, secondo il quale, almeno nella versione della mia professoressa del liceo, il pensiero era una secrezione del cervello. Ancora di piú richiama alla mia memoria, per analogia, un racconto di mio padre sui democristiani veneti dei primi anni del dopoguerra.

In questo racconto un onorevole predecessore di Rumor, in campagna elettorale, faceva intervenire ai suoi comizi (in incognito) un amico che, col fazzoletto rosso al collo e fingendosi ubriaco, interrompeva il comizio bestemmiando, insultando la chiesa e la DC, inneggiando al Partito Comunista e cantando Bandiera Rossa. A quel punto il pubblico lo cacciava con ignominia dalla piazza, portando in trionfo l’onorevole democristiano. Analogamente il passaggio dall’anticlericalismo alla tesi secondo cui il cattolico non può essere un vero scienziato (e viceversa) sembra fatto apposta per attirare sulla chiesa simpatie di indifferenti ed atei devoti, e per costringere anche i cristiani piú aperti a serrare le fila.

Un tale clima ci spinge infatti a difendere la profonda razionalità della dottrina cristiana e anzi la pienezza della sua conformità con la vera natura dell’uomo (il Concilio ci ha detto anche che Cristo rivela l’uomo all’uomo) e a sottolineare l’incompiutezza intrinseca della scienza umana, per la quale il confine della conoscenza può essere spostato in avanti, ma mai rimosso (l’origine degli atomi di cui si parlava all’inizio). La difesa, benché a volte doverosa, non sempre aiuta ad illuminare e rendere comprensibile il nocciolo della fede a chi non sia già convinto. Anzi a volte lo oscura: Bonhoeffer, in Resistenza e Resa, diceva che “non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze; se infatti i limiti della conoscenza continueranno ad allargarsi –il che è oggettivamente inevitabile– con essi anche Dio viene continuamente sospinto via, e di conseguenza si trova in una continua ritirata. Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo. Dio vuol essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte.” Anche la mia trentennale amicizia con colleghi che si dicono non credenti e m’interpellano sulla morte o sul perdono, sulla gioia o sulla noia, suggerisce che a volte, perfino per i professori di fisica teorica, la ricerca del coraggio di vivere e del segreto di una vita serena fanno venir voglia di approfondire l’insegnamento e la vita di Gesú piú dell’apologetica razionalistica cristiana o delle questioni aperte della filosofia della scienza.

C’è comunque da domandarsi come mai una corrente anticlericale/antiteista che negli anni settanta, quando studiavo fisica, pareva marginale se non proprio estinta nella comunità scientifica (e tale mi pare tuttora in sede internazionale), stia riprendendo quota in ambito nazionale. Come mai possa trovare udienza, nel nostro paese, la tesi (fra l’altro insostenibile, considerando la percentuale degli scienziati o anche solo dei premi Nobel che si dichiarano credenti) dell’inconciliabilità fra autentica scienza e autentica fede religiosa.

La mia impressione è che, certamente contro le loro intenzioni, il frequente intervento in prima persona dei Pastori su temi al confine fra scienza e tecnologia, specialmente riguardo alle scienze della vita e in connessione con specifici provvedimenti legislativi, abbia alla lunga suggerito tristezza e scetticismo sulle conquiste della scienza e della tecnica (anziché gioia e speranza) e poca fiducia nella responsabilità dei laici e nella collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà; e ottenuto l’involontario risultato della ripresa di un’ostilità preconcetta al cristianesimo, e di un simmetrico stile muro-contro-muro da parte della chiesa, del quale, nel nostro Paese, si era persa memoria e non si sentiva nostalgia. All’epoca della famosa lettera partita dal mio Dipartimento della Sapienza, ho tentato invano di spiegare ad amici e colleghi anticlericali che, come nel racconto veneto di papà, certe levate di scudi, a parte ogni giudizio di merito, si sarebbero alla fine risolte in una figuraccia per loro e per la Sapienza, non per il Papa; come poi è stato. E tuttavia sono rimasto con l’amaro in bocca: non mi è parsa una pagina allegra e costruttiva per nessuno dei protagonisti.

Quando la chiesa addita come serissimi i problemi inediti di libertà e responsabilità che le nuove tecnologie (piú che la scienza) pongono all’umanità, dalla biologia alla telematica e l’informazione planetaria, credo che abbia ragione. Non sono invece sicuro (e penso ancora a quel fuoco scout con don Franco) che, a centinaia di migliaia di anni dalla comparsa dell’uomo sulla terra, sia ancora possibile separare natura e cultura, attribuendo alla prima una realtà positiva e immutabile, alla quale magari, tornare con nostalgia. Tornare alla natura rifiutando cemento plastica automobili e magari anche vestiti, come suggerivano negli anni settanta hippies e protoambientalisti, novelli Rousseau, o cercare di trarre dalla natura criteri oggettivi di bene e di male (con ciò fatalmente tagliando fuori quanti non si riconoscono nella nostra definizione di natura, o di retta coscienza) sembrano, almeno a chi lavora nel mondo aperto e pluralista della scienza, strade meno promettenti rispetto alla ripresa di un dialogo pubblico e aperto, nel quale nessuno è piú uguale degli altri.

Chi non risica non rosica. Solo rischiando di essere battuti in campo aperto dagli argomenti dei propri interlocutori si può sperare di conquistarne, in campo aperto, il rispetto, l’attenzione, magari anche il consenso su nuove sintesi all’altezza delle sfide di un tempo nuovo. Solo con un dialogo aperto e uno sguardo fiducioso, capace di cogliere le grandi opportunità del tempo in cui viviamo e non solo e sempre pericoli guai ed errori, potranno venire alla luce gli immensi giacimenti d’intelligenza, fede, buona volontà nascosti nel nostro Paese e nel mondo, nella nostra chiesa e al di fuori di essa.

[Giovanni Bachelet]