Prefazione al libro di Alberto Ablondi “Un vescovo”
Giovanni Bachelet, gennaio 2005

Di Don Ablondi sentivo parlare fin da bambino dagli amici di mamma e papà, gli Zunin, coi quali andavamo in montagna insieme. Una figura mitica, uno di quei preti liguri esperti di campeggi e scarponi (ma con due o tre lauree sul groppone), che si fanno chiamare Don anche quando sono vescovi: proprio come Don Costa, altro mitico prete allora già vescovo, che passava le vacanze con noi in val d’Aosta, a Dolonne, nei favolosi anni sessanta del secolo scorso. Sembra passato piú di un secolo da quando quel gruppo di cristiani e preti, fiduciosi fin dagli anni della guerra che un altro mondo fosse possibile, si trovò a vivere da protagonista, in anni di paura ma anche di speranza e sviluppo, una straordinaria epopea di rinnovamento: il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Il libro mette a disposizione dei lettori, per usare un’espressione di Emmanuel Mounier, l’avventura cristiana dell’Autore –avventura di prete e di vescovo, ma anzitutto di battezzato: nel suo anello episcopale sono fuse le fedi dei genitori– raccogliendo in modo non sistematico, ma accessibile e gradevole, esperienze e riflessioni di una vita spesa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, con gioia e speranza, al servizio del mondo e della Parola di Dio.

Per questo servizio il vescovo Ablondi non esita a salire, in puro stile Sister Act, sul sedile posteriore di una motocicletta guidata da una suora, per presentare la nuova traduzione interconfessionale del Vangelo nel Viet Nam ancora comunista. Non si tira indietro nemmeno quando si tratta di esporsi, da vescovo, in un conflitto sindacale o in un funerale civile. La chiarezza di pensiero, “l’attenzione, il rispetto, la libertà che è lecito aspettarsi da un cristiano”, gli consentono di far crescere con pazienza la comunità cattolica di Livorno, e di raggiungere tutti –gli altri cristiani, gli ebrei, gli assenti per i piú vari motivi (Don Ablondi non li chiama lontani), i credenti in valori umani (come Paolo VI preferiva definire i non credenti), non esclusi i massoni– instaurando, da vescovo, un dialogo e un’amicizia che consente di non ignorare, e se necessario puntualizzare, ciò che divide, ma concentrarsi, con speranza e fiducia, su ciò che unisce. “Nel dialogo si scopre la saggezza di Dio che dilaga nell’universo”, dice un vecchio autore ebreo; anche per don Ablondi la diversità –perfino quella dell’handicap o del carcere– non va esorcizzata, ma accolta e valorizzata: è, infatti, luogo di rivelazione per cristiani e non.

Al centro di questo servizio è la Parola di Dio, la sua traduzione e la sua diffusione, inscindibilmente legate all’ecumenismo e al dialogo con tutte le chiese cristiane: elementi strategici dell’iniziativa di Giovanni XXIII, pienamente assunti e confermati da Paolo VI nella seconda parte del Concilio. Elementi che, anche per Don Ablondi, rappresentano non una tentazione demoniaca (giudizio di altro anonimo pastore, riferito con una punta di umorismo), ma uno dei punti focali della propria missione episcopale. Missione universale, aperta a tutti, lontana da ogni proselitismo, e perciò pienamente cattolica; appassionante realizzazione del gusto evangelico di vivere, condividere, lottare per un mondo piú giusto, comunicare gioia e speranza. Insomma, entusiastica risposta alla vocazione riscoperta dal Concilio per la comunità cristiana.

Come mai, da quel Concilio, sembra passato piú di un secolo? Forse perché il mondo ha perso la fiducia di allora in un domani di sviluppo, libertà e giustizia per tutti. Forse perché nella nostra chiesa e nelle chiese sono stati pochi, rispetto al dettato conciliare, i passi verso l’unità e il rinnovamento, verso una nuova libertà di fronte ai potenti di questo mondo, verso il superamento delle patologie clericali: legalismo, trionfalismo, paternalismo, perfino erotismo. Vale la pena di leggere, nel libro, il senso di quest’ultima, originale denuncia che arriva a colpire liturgia e sacramenti, quando si rivelano “gesti di amore fuori da un contesto di amore”: gesti del prete, della religiosa, del catechista sganciati da una reale circolazione di fede e d’amore nella comunità cristiana. Don Ablondi non ignora, infatti, pericoli e contraddizioni, ma resta ottimista: valorizza tutto, progressi visibili e invisibili nel campo mondiale dell’ecumenismo, imprevedibili attestati pubblici e privati di simpatia dei suoi livornesi. Ma continua ad amare e sperare contro ogni speranza soprattutto perché crede davvero alle promesse di Gesú.

Nel lettore che giunge all’ultima sezione, dedicata a Maria madre di Gesú e madre della Chiesa, quest’ottimismo basato su fede e ragione è confermato anche da un altro leitmotiv del libro: i giovani. Don Ablondi ha fin dall’inizio puntato sui giovani e, nel corso di un’intera vita da prete e da vescovo, ne ha raggiunti, evangelizzati ed entusiasmati parecchi. Cosí, fra un campeggio e un sinodo dei giovani, un’iniziativa di volontariato e un approfondimento biblico, diverse generazioni di Ablondi boys hanno colto la centralità della preghiera e della Bibbia, l’irrinunciabilità dello studio e dell’impegno intellettuale e sociale, la gioia e la grandezza della vita promessa da Gesú ai suoi amici. E la certezza che, anche con il loro contributo, un altro mondo è senz’altro possibile. Questa pattuglia di cristiani che Don Ablondi ha educato ad essere “non polli, ma aquile”, insegnando loro a volare alto e guardare lontano, ha in sé la potenzialità di un’onda lunga. Come i ragazzi che sessant’anni fa riemersero dalle macerie della guerra, queste ragazze e questi ragazzi riemergeranno con forza nella chiesa, nel paese e nel mondo, quando –e potrebbe essere fra poco– ridiventerà evidente il bisogno di un supplemento di coraggio e di idee, e piena la libertà di esprimerle e realizzarle.