Assemblea delle comunità della provincia italiana settentrionale dehoniana
Albino (Bergamo), 11 aprile 2007
contributo di Giovanni Bachelet alla tavola rotonda sui laici

...C’è inoltre un’altra cosa, Venerabili Fratelli, che è utile proporre alla vostra considerazione sull’argomento. Ad aumentare la santa letizia che in quest’ora solenne pervade i nostri animi, Ci sia cioè permesso osservare davanti a questa grandiosa assemblea che l’apertura di questo Concilio Ecumenico cade proprio in circostanze favorevoli di tempo.

Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.

Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa...

...Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole.

Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento, piuttosto che condannando.

(dal discorso di Giovanni XXIII per la solenne apertura del Concilio, 11 ottobre 1962)

Con questo stile Giovanni XXIII apriva, quarantacinque anni fa, il Concilio Ecumenico Vaticano II. C’era una volta il Concilio. Una breve parentesi da tempo archiviata, dicono i giornali di questi mesi; ne dubita, talvolta, anche qualche sconsolato cristiano. Un gol dello Spirito Santo, pensa qualche irriducibile ottimista; lo strenuo tentativo di parata è da un lato prevedibile, ma dall’altro pateticamente destinato all’insuccesso: il portiere non se n’è accorto, ma la palla ha già superato la linea bianca. Molti valori sono entrati nel cuore del popolo di Dio e della gente, mi diceva un amico prete dei tempi della mia gioventú, e indietro non si torna piú, neppure volendo. Cerco di resistere fra questi rari ottimisti. Non voglio diventare profeta di sventura come certi amici, religiosi e laici, il cui sistema nervoso ha ormai ceduto di fronte alle quotidiane entrate a gamba tesa dei vescovi nella politica italiana, ai continui ridimensionamenti della già scarsa autonomia riconosciuta ai laici (in parrocchia, associazioni, movimenti, società civile e politica), ai funerali negati, ai passi indietro annunciati nella liturgia e perfino nella musica, al tormentone sul relativismo etico, al cupo pessimismo sulla società contemporanea e perfino sull’Europa unita, capolavoro del cattolicesimo politico. Sí, di fronte a queste raffiche di vento gelido alcuni amici non ce la fanno piú, si abbandonano al catastrofismo e vedono nero nel presente e nel futuro della nostra Chiesa, senza accorgersi che questo stile fa a pugni proprio col paziente, sorridente, lungimirante ottimismo di Papa Giovanni, e anche con l’incrollabile tenacia di Paolo VI. Un ragionevole ottimismo si coltiva però guardando in faccia la realtà, non nascondendo la testa nella sabbia. Uno degli zii preti mi ha insegnato che l’ottimista conosce il male, il pessimista lo scopre giorno per giorno. Se vogliamo restare ottimisti sui laici nella Chiesa, che è poi il tema del vostro incontro, dobbiamo confrontare la realtà con le sfide e gli obbiettivi posti una quarantina d’anni fa dal Concilio, magari scoprire che siamo ancora indietro, ma provare comunque a indovinare se ci sia qualcosa di buono che ognuno di noi, nei diversi ruoli e ministeri, può fin d’ora fare per rispondere alla richiesta che Gesú rivolse a san Francesco attraverso un Crocifisso a San Damiano, e a noi, molti secoli dopo, attraverso due Papi e un Concilio: Ripara la mia Chiesa! In mancanza di preparazione storico-religiosa, e dovendo fortunatamente parlare per pochi minuti, confiderò nella vostra amicizia –del resto sono un vostro parrocchiano a Roma– mettendo insieme alla buona, anche sulla base delle esperienze parrocchiali (ho vissuto anche a Trento e Pisa), speranze e realtà.

Parti importanti delle costituzioni conciliari Lumen Gentium e Gaudium et Spes erano dedicate ai laici.[1] Un intero capitolo della Lumen Gentium era dedicato a loro, e i sottotitoli parlavano di dignità dei laici e di partecipazione dei laici alla funzione profetica e al servizio regale del Cristo. Col Concilio la Chiesa, infatti, non voleva piú identificarsi col clero, e i fedeli non erano piú una via di mezzo fra sudditi e utenti, devoti ma per lo piú ignari della lingua stessa in cui si svolgeva la liturgia domenicale, quasi sempre ignari della Sacra Scrittura: dovevano invece familiarizzarsi con la Parola di Dio e diventare –uomini e donne, anche questa una straordinaria novità– parte corresponsabile del Popolo di Dio nella liturgia e nell’apostolato. La vocazione secolare (professionale o familiare) non era piú vista come una specie di ripiego rispetto alla perfezione, rappresentata dalla vita religiosa e celibataria, ma, al contrario, come una particolare opportunità; fatto non meno rivoluzionario, veniva riconosciuta ai laici la competenza su aspetti che la gerarchia ecclesiastica aveva per secoli preteso di regolare in prima persona (la scienza, l’arte e la politica): ai laici competeva non solo l’onere di un’insostituibile consulenza ai Pastori, ma addirittura il diritto-dovere di assumere iniziative in prima persona, sotto la propria responsabilità.[2] Tutto nasceva dalla riscoperta della comune vocazione cristiana, del Battesimo, della Chiesa come popolo di Dio : i laici, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.[3] La nuova responsabilità alla quale il Concilio chiamava vescovi, preti e laici richiedeva una titanica opera di formazione e riconversione; di conversione tout-court, perché l’abbandono di antiche e consolidate abitudini e l’avvio di un nuovo cammino trovavano e trovano ostacoli formidabili e duraturi anche, forse soprattutto, nel cuore. In anni ricchi di difficoltà e speranze la Chiesa italiana avviò con entusiasmo quest’impresa, che implicava molte conseguenze, dal livello nazionale (la stessa Conferenza Episcopale è una novità di quegli anni) a quello parrocchiale. Le parole chiave della formazione, della corresponsabilità e della partecipazione, dell’autonomia dei laici volevano dire anche l’abbandono, in politica, non solo dell’intervento diretto, ma anche del collateralismo con un unico partito, o, per esempio, la fine delle adunate oceaniche (che avevano caratterizzato il pontificato di Pio XII e l’Azione Cattolica di Gedda) in favore di un rilancio e una riscoperta della Chiesa come comunità locale e di un’intensa opera di divulgazione biblica e liturgica. Quello che prima del Concilio era stato patrimonio di alcune élites universitarie influenzate specialmente dal cattolicesimo francese doveva diventare patrimonio di tutta la Chiesa. In Italia –almeno cosí pareva a me che negli anni ottanta del secolo scorso ho vissuto negli Stati Uniti e in Germania– la presenza capillare di organizzazioni popolari come l’Azione Cattolica, le ACLI o gli scout, e di ordini religiosi pienamente coinvolti nel rinnovamento conciliare, come voi Dehoniani, i Gesuiti o i Salesiani (e certamente ho dimenticato altri), aveva consentito che questa transizione fosse una transizione parrocchiale e di popolo. E’ grazie agli anni fra il 1965 e il 1985 che, per dirla con uno slogan, abbiamo imparato a dire Lodi e Vespri senza disprezzare il Rosario o le processioni; abbiamo imparato a discutere e collaborare con preti e vescovi in amicizia; abbiamo cominciato ad attuare il Concilio evitando il rischio, corso in altri paesi, di perdere quella preziosa dimensione popolare che i documenti di Verona giustamente segnalano come peculiare del cattolicesimo italiano (sottovalutandone, forse, la radice conciliare).

Tornando in Italia dall’estero, a metà degli anni ottanta del secolo scorso, la mia impressione è stata però quella di un’inversione di tendenza: come se in mia assenza ci fosse stata un’improvvisa sterzata, una riscossa di tutti quelli che non avevano mai digerito il Concilio. Negli anni l’impressione è stata confermata. Partendo dal vertice, questa tendenza contagiava via via tutti i livelli: perfino, con mia meraviglia, quelle istituzioni (ordini religiosi parrocchie associazioni) che avevano collaborato con entusiasmo alla prima attuazione del Concilio, e che, sulla carta, non avevano (né hanno ancora) rinnegato questa ispirazione originaria.

Il fatto è che l’abbandono del metodo della consultazione ha effetti a cascata: anche il piú aperto dei vescovi, se non viene consultato sulla scelta del suo capo, o sulle linee pastorali nazionali, o sui giornali e le televisioni che si finanziano con l’8 per mille, è tentato di non consultare i suoi parroci, che a loro volta sono tentati di non consultare i loro fedeli. Anche mantenendo per intero il principio di autorità e senza spingersi sul terreno della democrazia, è infatti già un rischio e una fatica enorme consultarsi (per davvero, in modo pubblico e trasparente, non col metodo clericale dell’aumma-aumma); è un rischio e una fatica enorme affidare davvero ai laici le questioni in cui sono competenti (che si tratti del bilancio, del riscaldamento della parrocchia o dei lavori dell’oratorio); è un rischio e una fatica enorme tenere in vita ambiti e occasioni continuative di formazione e ascolto reciproco nella programmazione delle attività pastorali, non escluse le omelie. Se chi sta sopra di noi non ha alcun interesse nella nostra opinione, perché dovremmo proprio noi sudare sangue per avere quella dei nostri fedeli? Non è piú semplice e comodo riempire di testa propria le varie caselle –catechisti, messe, attività parrocchiali varie? Non è piú semplice e comodo fare il Consiglio Pastorale solo perché c’è scritto da qualche parte che si deve fare, ma poi decidere tutte le cose importanti al di fuori di esso, per conto proprio o al massimo consultando in modo arbitrario e senza pubblica discussione qualche fedele “piú uguale degli altri”, come del resto i preti piú saggi facevano anche prima del Concilio?

Sí, è piú semplice e comodo. Ma alla lunga produce una situazione che a livello nazionale si traduce in un giornale “dei vescovi” che nemmeno i parroci leggono piú, visto che nessuna voce significativa del cattolicesimo italiano, salvo quelle completamente allineate con la presidenza della CEI, vi ha piú alcuno spazio; in un monsignore che parla a tutto spiano di bioetica senza avere nemmeno un dottorato in Biologia; in associazioni nazionali strette nell’alternativa fra l’allinearsi ad opinabili iniziative pubbliche sempre piú improntate all’intervento politico diretto in puro stile anni ’50 e la perdita della benedizione dei vescovi. Ma anche a livello locale, anche in parrocchie che storicamente hanno cullato il rinnovamento conciliare, questo si può tradurre in effetti non meno sorprendenti: catechisti privi di qualsiasi formazione biblica o teologica che hanno l’unico pregio di non essere rompiscatole, gruppi scout vitali con i quali la parrocchia intrattiene una specie di coesistenza pacifica di brezneviana memoria avendo abbandonato ogni tentativo di sinergia e coinvolgimento aperto alla discussione; catechesi matrimoniale puramente simbolica, con tutti e due gli occhi chiusi sulle condizioni in cui non solo i generici fedeli, ma anche i giovani attivi nei gruppi parrocchiali, arrivano al matrimonio...di sessualità meglio non parlare, sennò i ragazzi scappano; di politica neppure, sennò si divide la comunità; e insomma a che cosa ci si riduce? alla pura gestione dell’esistente, a un mediocre coinvolgimento di quei pochi o tanti laici disposti a collaborare a qualsiasi costo, e anche quelli utilizzati male, senza slanci e senza una strategia di formazione della prossima generazione di adulti. Al contrario del Concilio, che aveva avuto il coraggio di rendere avventuroso e faticoso il presente in vista di un rinnovamento capace di rispondere alle sfide del futuro, si rinuncia a qualsiasi progetto di lungo e medio periodo pur di riempire senza scocciature le caselle dell’anno prossimo. Cosí, anziché formare e valorizzare una nuova generazione di cristiani adulti svegli e vispi, si privilegiano sistematicamente quelli un po’ tonti ma di sicura obbedienza e senza grilli per la testa, mentre molta parte dell’energia dei preti continua ad essere dedicata all’organizzazione di gite, alla riparazione di riscaldamenti, a bilanci ed altri compiti che potrebbero essere tranquillamente svolti da laici degni di questo nome; ma sono compiti, a quanto pare, molto piú divertenti e appaganti delle confessioni (sulle quali nessuno fa una strategia, limitandole a Pasqua e Natale), della comunione ai malati, della catechesi, perfino della preparazione delle omelie. E parlo delle parrocchie buone!

All’inizio ho detto che non voglio diventare profeta di sventura: voglio restare ottimista e provare a indovinare quel che di buono ognuno, nei diversi ruoli e ministeri, può fin d’ora fare. Ma prima di tornare, almeno in conclusione, a queste buone intenzioni, permettetemi qualche ultima lamentazione. Anzitutto, se la Chiesa regredisce, la colpa non è solo dei vescovi e dei preti. Il tarlo del pessimismo, che poi è mancanza di fede, non risparmia noi laici; spesso anche noi, passata una certa età, riponiamo la nostra speranza nella casa, nel conto in banca, nella tranquillità, con tanti saluti agli ideali della nostra gioventú; anche noi siamo tentati di venir meno alla parola data e di fare il comodo nostro. Se a nessuno dei nostri figli viene in mente di fare il missionario, se non pregano e non leggono il Vangelo, se guardano all’amore e al futuro lavoro con disincanto e senza slanci ideali, la colpa è anzitutto di noi, genitori cristiani, smarriti e tentati dal tradimento, dal disincanto, dalla mediocrità, dalla routine, né piú né meno che i vescovi e i preti. Inoltre, sul nostro tempo, i Vescovi hanno ahimé ragione: i pericoli di involuzione e catastrofe ci sono davvero, fra grandi migrazioni, crolli delle ideologie, disperazione e povertà per molti popoli, aumento del benessere materiale senza crescita culturale e spirituale per altri. Ma il Concilio non era basato su un ottimismo beota: al contrario, esso aveva messo a fuoco con lungimiranza, insieme alle nuove, grandi opportunità, anche questi pericoli; e proprio in questo contesto proponeva una risposta sorridente ed efficace per la Chiesa e per il mondo. Rallentare la sua attuazione, guardare all’indietro, tentare di fermare il tempo; confidare piú nelle leggi, nel potere politico, negli ospedali e nelle scuole private, che non nella possibilità di una nuova presenza dei cristiani nel mondo fondata sul Vangelo, è non solo una risposta rattrappita, triste, non sorridente; è, soprattutto, una risposta inefficace. Senza una pattuglia di laici adulti, di donne e uomini di fede educati al coraggio, alla libertà e alla responsabilità, non si va da nessuna parte.

Come restare ottimisti, come perseverare nel cammino della libertà e della responsabilità in una Chiesa che amiamo ma offre, in questi anni, pochissimi spazi di partecipazione? Un prete molto significativo per la mia giovinezza, di fronte ad un recente sfogo di nostalgia per quegli anni, mi ha fatto per email gli auguri di Pasqua con queste parole:

- Era una bella stagione, ariosa

- C'era il Concilio

- Poi son venuti Aldo Moro, tuo padre, Paolo Sesto, Enrico Bartoletti, Tavazza, Di Liegro...

- Esisteva un dibattito vero, culturale.

Chi siamo noi, adesso?

- La stagione si è fatta grigia. Molti valori sono comunque entrati nel cuore del popolo di Dio e della gente.

- C'è un misto di paura, mediocrità culturale, tentativo di "mostrare" e "dimostrare".

- Anche gli interlocutori non sono scintillanti.

Avendo però noi deciso di vivere, abbandoniamo i grandi orizzonti, identifichiamo obiettivi possibili e continuiamo imperterriti.

Quali sono gli obbiettivi possibili? Permettetemi di suggerirne uno che è alla portata di tutti: di voi, responsabili di comunità religiose, attivi nelle parrocchie, insegnanti; di me, genitore, lavoratore, parrocchiano, cittadino. Se e quando avete qualcuno sopra di voi, pretendete che vi stia a sentire; ma soprattutto, se e quando avete qualcuno sotto di voi, consultatelo. Proviamo tutti a rimettere in circolo nella Chiesa (e anche nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nella politica) lo stile della consultazione, dell’ascolto, del dialogo lanciato dal Concilio; di promuovere, anche se costa moltissima pazienza e fatica, la circolazione delle notizie e delle idee; accettiamo, anzi promuoviamo la pubblica discussione delle scelte che riguardano tutti. E non solo perché questo è l’unico stile cristiano di comunione, di amore, di unità –l’unità senza dialogo si chiama totalitarismo– ma perché a consultarsi sul serio (ovvero: non fare tutto di testa propria, non ascoltare solo quelli che ci danno sempre ragione), si evitano spesso decisioni sbagliate e dannose per tutti.

Un altro grande maestro cristiano che mi ha recentemente confortato di fronte ai recenti, paurosi regressi nei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Paese, e che su questo tema si è coraggiosamente esposto con numerosi interventi pubblici è il nostro ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, col quale ho avuto occasione di lavorare negli ultimi due anni nel comitato del referendum costituzionale. Alla mia domanda: il Corriere della Sera o la Repubblica non intervistano certo me;  Avvenire, che sarebbe il luogo naturale di scambio di idee fra cattolici, non mi invita a scrivere dal 2001. Io che non sono un ex Presidente della Repubblica, che cosa posso fare per aiutare la Chiesa a correggere il tiro? E lui mi ha detto: credere di piú e pregare di piú. Ma ha aggiunto: se capita che preti e suore t’invitino a parlare, di’ quello che pensi. E’ quello che ho fatto adesso: grazie per avermi invitato e per avermi ascoltato.



[1] tutti i documenti successivi, anche quelli finalizzati a frenare, si richiamano a queste due; tanto vale, quindi, riferirsi direttamente alle fonti

[2] vedi Gaudium et Spes, n.43

[3] vedi Lumen Gentium, n. 31