...C’è inoltre un’altra cosa,
Venerabili
Fratelli,
che è utile proporre alla vostra considerazione sull’argomento.
Ad
aumentare la
santa letizia che in quest’ora solenne pervade i nostri animi, Ci sia
cioè
permesso osservare davanti a questa grandiosa assemblea che l’apertura
di
questo Concilio Ecumenico cade proprio in circostanze favorevoli di
tempo.
Spesso infatti avviene, come abbiamo
sperimentato
nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza
offesa per le
Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene
accesi di
zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente
obiettività né
prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana
essi
non sono
capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri
tempi, se
si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e
arrivano
fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare
dalla
storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti
Concili tutto
procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale,
alla giusta
libertà della Chiesa.
A Noi sembra di dover risolutamente
dissentire da
codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi
incombesse
la fine del mondo.
Nello stato presente degli eventi umani, nel
quale
l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono
piuttosto da
vedere i
misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi
successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là
delle
loro
aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende
umane,
per il bene della Chiesa...
...Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II,
è
evidente come non mai che la verità del Signore rimane in
eterno.
Vediamo
infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte
opinioni
degli
uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena
sorti,
come nebbia dissipata dal sole.
Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa
non si
sia
opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con
la
massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo
preferisce usare
la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del
rigore; pensa
che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo
più
chiaramente
il valore del suo insegnamento, piuttosto che condannando.
(dal discorso di Giovanni XXIII per la solenne
apertura
del Concilio, 11 ottobre 1962)
Con questo stile Giovanni XXIII
apriva, quarantacinque anni fa, il Concilio Ecumenico Vaticano II.
C’era una
volta il Concilio. Una breve parentesi da tempo archiviata, dicono i
giornali
di questi mesi; ne dubita, talvolta, anche qualche sconsolato
cristiano. Un gol
dello Spirito Santo, pensa qualche irriducibile ottimista; lo strenuo
tentativo
di parata è da un lato prevedibile, ma dall’altro pateticamente
destinato
all’insuccesso: il portiere non se n’è accorto, ma la palla ha
già
superato la
linea bianca. Molti valori sono
entrati nel cuore del popolo di Dio e della gente, mi diceva un amico
prete dei
tempi della mia gioventú, e indietro non si torna piú,
neppure volendo.
Cerco di resistere fra questi rari
ottimisti. Non voglio
diventare profeta di sventura come certi amici, religiosi e laici, il
cui
sistema nervoso ha ormai ceduto di fronte alle quotidiane entrate a
gamba tesa
dei vescovi nella politica italiana, ai continui ridimensionamenti
della già
scarsa autonomia riconosciuta ai laici (in parrocchia, associazioni,
movimenti,
società civile e politica), ai funerali negati, ai passi
indietro
annunciati
nella liturgia e perfino nella musica, al tormentone sul relativismo
etico, al
cupo pessimismo sulla società contemporanea e perfino
sull’Europa unita, capolavoro
del
cattolicesimo politico. Sí, di fronte a queste raffiche di vento
gelido alcuni
amici non ce la fanno piú, si abbandonano al catastrofismo e
vedono nero nel presente e nel futuro della nostra Chiesa, senza
accorgersi che questo stile fa a pugni proprio col paziente,
sorridente,
lungimirante ottimismo di Papa Giovanni, e anche con l’incrollabile
tenacia di
Paolo VI.
Un ragionevole ottimismo si coltiva
però guardando in faccia la realtà, non nascondendo la
testa nella
sabbia. Uno
degli zii preti mi ha insegnato che l’ottimista conosce il male, il
pessimista lo scopre giorno per giorno. Parti importanti delle costituzioni conciliari Lumen
Gentium e Gaudium
et
Spes erano dedicate ai
laici.[1]
Un intero capitolo della Lumen
Gentium era dedicato a loro, e i sottotitoli parlavano di
dignità dei laici e di partecipazione dei laici alla funzione
profetica
e al
servizio regale del Cristo. Col Concilio la Chiesa, infatti, non voleva
piú
identificarsi col clero, e i fedeli non erano piú una via di
mezzo fra
sudditi
e utenti, devoti ma per lo piú ignari della lingua stessa in cui
si
svolgeva la
liturgia domenicale, quasi sempre ignari della Sacra Scrittura:
dovevano invece
familiarizzarsi con la Parola di Dio e diventare –uomini e donne, anche
questa
una straordinaria novità– parte corresponsabile del Popolo di
Dio nella
liturgia e nell’apostolato. La vocazione secolare (professionale o
familiare)
non era piú vista come una specie di ripiego rispetto alla
perfezione,
rappresentata dalla vita religiosa e celibataria, ma, al contrario,
come una
particolare opportunità; fatto non meno rivoluzionario, veniva
riconosciuta ai
laici la competenza su aspetti che la gerarchia ecclesiastica aveva per
secoli
preteso di regolare in prima persona (la scienza, l’arte e la
politica): ai
laici competeva non solo l’onere di un’insostituibile consulenza ai
Pastori, ma
addirittura il diritto-dovere di assumere iniziative in prima persona,
sotto la
propria responsabilità.[2]
Tutto nasceva dalla riscoperta della comune vocazione cristiana, del
Battesimo,
della Chiesa come popolo di Dio : i laici, dopo essere stati
incorporati a
Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura,
resi
partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per
la loro
parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto
il
popolo cristiano.[3]
La nuova responsabilità alla quale il Concilio chiamava vescovi,
preti
e laici
richiedeva una titanica opera di formazione e riconversione; di
conversione tout-court, perché
l’abbandono di antiche e consolidate
abitudini e l’avvio di un nuovo cammino trovavano e trovano ostacoli
formidabili e duraturi anche, forse soprattutto, nel cuore. In anni
ricchi di
difficoltà e speranze la Chiesa italiana avviò con
entusiasmo
quest’impresa,
che implicava molte conseguenze, dal livello nazionale (la stessa
Conferenza
Episcopale è una novità di quegli anni) a quello
parrocchiale. Le
parole chiave
della formazione, della corresponsabilità e della
partecipazione,
dell’autonomia dei laici volevano dire anche l’abbandono, in politica,
non solo
dell’intervento diretto, ma anche del collateralismo con un unico
partito, o,
per esempio, la fine delle adunate oceaniche (che avevano
caratterizzato il
pontificato di Pio XII e l’Azione Cattolica di Gedda) in favore di un
rilancio
e una riscoperta della Chiesa come comunità locale e di
un’intensa
opera di
divulgazione biblica e liturgica. Quello che prima del Concilio era
stato
patrimonio di alcune élites
universitarie influenzate specialmente dal cattolicesimo francese
doveva
diventare patrimonio di tutta la Chiesa. In Italia –almeno cosí
pareva
a me che
negli anni ottanta del secolo scorso ho vissuto negli Stati Uniti e in
Germania– la presenza capillare di organizzazioni popolari come
l’Azione
Cattolica, le ACLI o gli scout, e di ordini religiosi pienamente
coinvolti nel
rinnovamento conciliare, come voi Dehoniani, i Gesuiti o i Salesiani (e
certamente
ho dimenticato altri), aveva consentito che questa transizione fosse
una
transizione parrocchiale e di popolo. E’ grazie agli anni fra il 1965 e
il 1985
che, per dirla con uno slogan, abbiamo imparato a dire Lodi e Vespri
senza
disprezzare il Rosario o le processioni; abbiamo imparato a discutere e
collaborare con preti e vescovi in amicizia; abbiamo cominciato ad
attuare il
Concilio evitando il rischio, corso in altri paesi, di perdere quella
preziosa
dimensione popolare che i documenti di Verona giustamente segnalano
come
peculiare del cattolicesimo italiano (sottovalutandone, forse, la
radice
conciliare). Tornando in Italia dall’estero, a metà degli
anni ottanta del secolo scorso, la mia impressione è stata
però quella
di
un’inversione di tendenza: come se in mia assenza ci fosse stata
un’improvvisa
sterzata, una riscossa di tutti quelli che non avevano mai digerito il
Concilio. Negli anni l’impressione è stata confermata. Partendo
dal
vertice,
questa tendenza contagiava via via tutti i livelli: perfino, con mia
meraviglia, quelle istituzioni (ordini religiosi parrocchie
associazioni) che
avevano collaborato con entusiasmo alla prima attuazione del Concilio,
e che,
sulla carta, non avevano (né hanno ancora) rinnegato questa
ispirazione
originaria. Il fatto è che l’abbandono del metodo della
consultazione ha effetti a cascata: anche il piú aperto dei
vescovi, se
non
viene consultato sulla scelta del suo capo, o sulle linee pastorali
nazionali,
o sui giornali e le televisioni che si finanziano con l’8 per mille,
è
tentato
di non consultare i suoi parroci, che a loro volta sono tentati di non
consultare i loro fedeli. Anche mantenendo per intero il principio di
autorità
e senza spingersi sul terreno della democrazia, è infatti
già un
rischio e una
fatica enorme consultarsi (per davvero, in modo pubblico e trasparente,
non col
metodo clericale dell’aumma-aumma); è un rischio e una fatica
enorme
affidare
davvero ai laici le questioni in cui sono competenti (che si tratti del
bilancio, del riscaldamento della parrocchia o dei lavori
dell’oratorio); è un
rischio e una fatica enorme tenere in vita ambiti e occasioni
continuative di
formazione e ascolto reciproco nella programmazione delle
attività
pastorali,
non escluse le omelie. Se chi sta sopra di noi non ha alcun interesse
nella
nostra opinione, perché dovremmo proprio noi sudare sangue per
avere
quella dei
nostri fedeli? Non è piú semplice e comodo riempire di
testa propria le
varie
caselle –catechisti, messe, attività parrocchiali varie? Non
è piú
semplice e
comodo fare il Consiglio Pastorale solo perché c’è
scritto da qualche
parte che
si deve fare, ma poi decidere tutte le cose importanti al di fuori di
esso, per
conto proprio o al massimo consultando in modo arbitrario e senza
pubblica
discussione qualche fedele “piú uguale degli altri”, come del
resto i
preti piú
saggi facevano anche prima del Concilio? Sí, è piú semplice e comodo. Ma alla
lunga
produce una situazione che a livello nazionale si traduce in un
giornale “dei
vescovi” che nemmeno i parroci leggono piú, visto che nessuna
voce
significativa del cattolicesimo italiano, salvo quelle completamente
allineate
con la presidenza della CEI, vi ha piú alcuno spazio; in un
monsignore
che
parla a tutto spiano di bioetica senza avere nemmeno un dottorato in
Biologia;
in associazioni nazionali strette nell’alternativa fra l’allinearsi ad
opinabili iniziative pubbliche sempre piú improntate
all’intervento
politico
diretto in puro stile anni ’50 e la perdita della benedizione dei
vescovi. Ma
anche a livello locale, anche in parrocchie che storicamente hanno
cullato il
rinnovamento conciliare, questo si può tradurre in effetti non
meno
sorprendenti: catechisti privi di qualsiasi formazione biblica o
teologica che
hanno l’unico pregio di non essere rompiscatole, gruppi scout vitali
con i
quali la parrocchia intrattiene una specie di coesistenza pacifica di
brezneviana memoria avendo abbandonato ogni tentativo di sinergia e
coinvolgimento aperto alla discussione; catechesi matrimoniale
puramente
simbolica, con tutti e due gli occhi chiusi sulle condizioni in cui non
solo i
generici fedeli, ma anche i giovani attivi nei gruppi parrocchiali,
arrivano al
matrimonio...di sessualità meglio non parlare, sennò i
ragazzi
scappano; di
politica neppure, sennò si divide la comunità; e insomma
a che cosa ci
si
riduce? alla pura gestione dell’esistente, a un mediocre coinvolgimento
di quei
pochi o tanti laici disposti a collaborare a qualsiasi costo, e anche
quelli
utilizzati male, senza slanci e senza una strategia di formazione della
prossima generazione di adulti. Al contrario del Concilio, che aveva
avuto il
coraggio di rendere avventuroso e faticoso il presente in vista di un
rinnovamento capace di rispondere alle sfide del futuro, si rinuncia a
qualsiasi progetto di lungo e medio periodo pur di riempire senza
scocciature
le caselle dell’anno prossimo. Cosí, anziché formare e
valorizzare una
nuova
generazione di cristiani adulti svegli e vispi, si privilegiano
sistematicamente quelli un po’ tonti ma di sicura obbedienza e senza
grilli per
la testa, mentre molta parte dell’energia dei preti continua ad essere
dedicata
all’organizzazione di gite, alla riparazione di riscaldamenti, a
bilanci ed
altri compiti che potrebbero essere tranquillamente svolti da laici
degni di
questo nome; ma sono compiti, a quanto pare, molto piú
divertenti e
appaganti
delle
confessioni (sulle quali nessuno fa una strategia, limitandole a Pasqua
e
Natale), della comunione ai malati, della catechesi, perfino della
preparazione
delle omelie. E parlo delle parrocchie buone! All’inizio ho detto che non
voglio diventare profeta di sventura: voglio restare
ottimista e provare a indovinare quel che
di buono
ognuno, nei diversi ruoli e ministeri, può fin d’ora fare. Ma
prima di
tornare,
almeno in conclusione, a queste buone intenzioni, permettetemi qualche
ultima
lamentazione. Anzitutto, se la Chiesa regredisce, la colpa non è
solo
dei
vescovi e dei preti. Il tarlo del pessimismo, che poi è mancanza
di
fede, non
risparmia noi laici; spesso anche noi, passata una certa età,
riponiamo
la
nostra speranza nella casa, nel conto in banca, nella
tranquillità, con
tanti
saluti agli ideali della nostra gioventú; anche noi siamo
tentati di
venir meno
alla parola data e di fare il comodo nostro. Se a nessuno dei nostri
figli
viene in mente di fare il missionario, se non pregano e non leggono il
Vangelo,
se guardano all’amore e al futuro lavoro con disincanto e senza slanci
ideali,
la colpa è anzitutto di noi, genitori cristiani, smarriti e
tentati dal
tradimento, dal disincanto, dalla mediocrità, dalla routine,
né piú né
meno che i
vescovi e i preti. Inoltre, sul
nostro
tempo, i Vescovi hanno ahimé ragione: i pericoli di involuzione
e
catastrofe ci
sono davvero, fra grandi migrazioni, crolli delle ideologie,
disperazione e
povertà per molti popoli, aumento del benessere materiale senza
crescita
culturale e spirituale per altri. Ma il Concilio non era basato su un
ottimismo
beota: al contrario, esso aveva messo a fuoco con lungimiranza, insieme
alle
nuove, grandi opportunità, anche questi pericoli; e proprio in
questo
contesto
proponeva una risposta sorridente ed efficace per la Chiesa e per il
mondo.
Rallentare la sua attuazione, guardare all’indietro, tentare di fermare
il
tempo; confidare piú nelle leggi, nel potere politico, negli
ospedali e
nelle scuole private, che non nella possibilità
di una nuova presenza dei cristiani nel mondo fondata sul Vangelo,
è
non solo
una risposta rattrappita, triste, non sorridente; è,
soprattutto, una
risposta inefficace. Senza una pattuglia di laici adulti, di donne e
uomini di
fede educati al coraggio, alla libertà e alla
responsabilità, non si va
da
nessuna parte. Come restare ottimisti, come perseverare nel
cammino della libertà e della responsabilità in una
Chiesa che amiamo
ma offre, in questi anni, pochissimi spazi di partecipazione? Un prete
molto
significativo per la mia giovinezza, di fronte ad un recente sfogo di
nostalgia
per quegli anni, mi ha fatto per email gli auguri di Pasqua con queste
parole: - Era una bella stagione, ariosa - C'era il Concilio - Poi son venuti Aldo Moro, tuo padre, Paolo
Sesto,
Enrico Bartoletti, Tavazza, Di Liegro... - Esisteva un dibattito vero, culturale. Chi siamo noi, adesso? - La stagione si è fatta grigia. Molti
valori
sono
comunque entrati nel cuore del popolo di Dio e della gente. - C'è un misto di paura,
mediocrità
culturale,
tentativo di "mostrare" e "dimostrare". - Anche gli interlocutori non sono
scintillanti. Avendo però noi
deciso di vivere, abbandoniamo i grandi orizzonti, identifichiamo
obiettivi
possibili e continuiamo imperterriti. Quali sono gli obbiettivi possibili?
Permettetemi di suggerirne uno che è alla portata di tutti: di
voi,
responsabili di comunità religiose, attivi nelle parrocchie,
insegnanti; di me,
genitore, lavoratore, parrocchiano, cittadino. Se e quando avete
qualcuno sopra
di voi, pretendete che vi stia a sentire; ma soprattutto, se e quando
avete
qualcuno sotto di voi, consultatelo. Proviamo tutti a rimettere in
circolo
nella Chiesa (e anche nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nella
politica) lo stile della consultazione, dell’ascolto, del
dialogo lanciato dal Concilio; di promuovere, anche se costa moltissima
pazienza e fatica, la circolazione delle
notizie e
delle idee; accettiamo, anzi promuoviamo la pubblica discussione delle
scelte che riguardano tutti. E non solo perché questo è
l’unico stile
cristiano di comunione, di amore, di unità –l’unità senza
dialogo si
chiama
totalitarismo– ma perché a consultarsi sul
serio
(ovvero: non fare tutto di testa propria, non
ascoltare solo quelli che ci danno sempre ragione), si
evitano
spesso decisioni sbagliate e dannose per tutti. Un altro grande maestro cristiano che mi ha
recentemente confortato di fronte ai recenti, paurosi regressi nei
rapporti fra
Chiesa e Stato nel nostro Paese, e che su questo tema si è
coraggiosamente
esposto con numerosi interventi pubblici è il nostro ex
Presidente
della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, col quale ho avuto occasione di
lavorare negli
ultimi due anni nel comitato del referendum costituzionale. Alla mia
domanda:
il Corriere della Sera o la Repubblica non intervistano certo me; Avvenire, che sarebbe il luogo naturale
di scambio di idee fra cattolici, non mi invita a scrivere dal 2001. Io
che non
sono un ex Presidente della Repubblica, che cosa posso fare per aiutare
la
Chiesa a correggere il tiro? E lui mi ha detto: credere di piú e
pregare di
piú. Ma ha aggiunto: se capita che preti e suore t’invitino a
parlare,
di’
quello che pensi. E’ quello che ho fatto adesso: grazie per avermi
invitato
e per avermi ascoltato.
[1] tutti i documenti successivi, anche quelli finalizzati a frenare, si richiamano a queste due; tanto vale, quindi, riferirsi direttamente alle fonti
[2] vedi Gaudium et Spes, n.43
[3] vedi Lumen Gentium, n. 31