Congratulazioni che non capisco

di Giovanni B. Bachelet, in Avvenire, 23 agosto 1999 (prima pagina)
 

Due eventi degli ultimi giorni e, soprattutto, i commenti che li hanno accompagnati sotto i nostri ombrelloni, hanno fatto uno strano effetto a chi del terrorismo (prima verbale e ideologico, poi militare) degli anni 70 e 80, è stato, come me, non solo giovane testimone, ma poi, suo malgrado, anche protagonista. Una terrorista, coinvolta in quegli anni in un gruppo armato in terra straniera, ottiene, in virtú di una convenzione internazionale per troppi anni ignorata e successivamente accettata attraverso un singolare trattato, di scontare l'ultima parte della pena nel nostro Paese, vicino alla madre. L'ex-direttore di un giornale gruppettaro, famoso per aver promosso in quegli stessi anni il linciaggio morale di un poliziotto italiano e averne festeggiato pubblicamente la morte il giorno dopo il suo misterioso omicidio (ma noto anche come campione di galleggiamento per la successiva pubblicistica sulle riviste di Craxi e Martelli, fino ai recenti, commoventi interventi sulla violenza nell'ex-Yugoslavia), viene scarcerato in attesa dell'ennesimo processo. Dopo due gradi di giudizio e due sentenze della Cassazione a lui sfavorevoli, avrà un'ulteriore chance di dimostrare la propria innocenza riguardo alla partecipazione materiale in quell'omicidio (sulla sua responsabilità morale nessuna persona sensata vissuta in quegli anni ha dubbi, ma questo è un altro discorso).

Quali sono i commenti del mondo politico e giornalistico? Tutti, meno quelli che avrei fatto io. C'è chi - anche giornalisti in gamba, che finora seguivo con simpatia - si congratula con la terrorista per non essersi mai pentita di quel che ha fatto, e la addita ai lettori come un'eroina della coerenza. C'è chi approva, e chi disapprova, il fatto che un aereo governativo, al modico prezzo di circa mezzo miliardo (contro i quattro milioni necessari a due poliziotti di scorta su un normale volo di linea), abbia provveduto al suo ritorno in Patria, e che per giunta un Ministro le sia andato incontro all'aeroporto (ma sarà poi vero?), quasi si trattasse di un'autorità politica o religiosa. C'è chi si scandalizza del fatto che, dopo la scarcerazione, all'ex-direttore del giornale gruppettaro (e, speriamo erroneamente, presunto omicida) sia stato prescritto l'obbligo di soggiorno e vietato l'espatrio, e chi si scandalizza invece che sia stato scarcerato. Si parla molto dei colpevoli, veri o presunti, che hanno il notevole vantaggio di essere ancora vivi, e poco delle vittime. Nessuno, poi, a fronte delle indignate proteste su espatrio e soggiorno obbligato, ricorda che un altro líder maximo della sinistra violenta (quello che sentiva un brivido quando si calava il passamontagna), appena ottenuta l'immunità parlamentare grazie a Pannella, se la squagliò in Francia e lí passò felicemente una ventina d'anni che avrebbe altrimenti scontato in prigione. In prigione? Non necessariamente, perché, una volta tornato nel Bel Paese, ha rapidamente ottenuto il regime di semilibertà. Qui si comprendono, pur senza giustificarle, le umilianti clausole che l'Italia ha dovuto subire per ottenere il rispetto di un trattato internazionale e il rimpatrio di quella terrorista: l'impressione di un osservatore straniero - ma anche di chi, come me, abbia vissuto a lungo all'estero - è infatti che nel nostro Paese (pur di non essere rom, spacciatori, albanesi o neri; pur di aver commesso un reato di terrorismo, di mafia o tangenti, cui si possa dare qualche valenza politica) tutto finisca a tarallucci e vino.

Come combattere questa penosa impressione senza finire nella barbarie di altri Paesi (pur democratici e molto influenti), che ancor oggi praticano la pena di morte e intendono, come ai tempi di Hammurabi e del Far West, la pena come vendetta (i parenti delle vittime sono consultati sul destino dei condannati ed autorizzati ad assistere alla loro esecuzione capitale)? Col buon senso, con l'equilibrio e con la moderazione. Si può e si deve, ad esempio, fare di tutto per trasformare la pena in uno strumento di redenzione e rieducazione. Si può e si deve esplorare sempre meglio il sentiero delle pene alternative. Ma, a parte le (ovvie?) precauzioni di non rimettere in circolazione condannati ancora pericolosi e di non privilegiare reclusi eccellenti a danno di poveracci senza voce, sarebbe poi ragionevole incoraggiare il detenuto in semilibertà ad attività magari diverse da quelle che lo hanno inizialmente condotto al reato. Ad un ladro di polli in semilibertà non sembra sensato affidare un pollaio. Che senso hanno, allora, attività parapolitiche, sociologiche o pubblicistiche per detenuti che, occupandosi vent'anni fa di queste stesse cose, hanno ammazzato qualche decina di persone? Sembrerebbe ovvio (ma non tutti lo capiscono) avviarli verso altri mestieri, come il giardinaggio o l'edilizia: non per evitare traumi ai parenti delle vittime (che trovando certe firme sui quotidiani o nelle vetrine delle librerie potrebbero ingrugnarsi come Nanni Moretti nel film "La seconda volta" di Mimmo Calopresti), ma per rieducare i carnefici al contatto con la vita vera della povera gente normale, il cui disprezzo, dall'alto della propria missione di "avanguardia politica", è stato già una volta causa di perdizione per sé e per molti.

Una gestione prudente, seria ed equa del regime di semilibertà non è facile. E' pesante la responsabilità di concederla, e non è facile, sotto la pressione dei media e della politica, avere per prostitute e ladri lo stesso riguardo che si ha per ex-redattori di Lotta Continua, ex primi ministri e influenti tychoons televisivi. Solo prudenza, serietà ed equità ci consentiranno però di difendere a testa alta, anche nel futuro, le nostre tradizioni europee, il nostro Beccaria, il primato morale e civile degli Italiani. Di conservare la nostra percentuale di omicidi tre volte piú bassa di quella degli Stati Uniti, dimostrando che sotto questo profilo la nostra civiltà giuridica non è solo piú umana, è anche piú efficiente. Di digerire qualche amarezza domestica e internazionale e restare fieri dei tanti amici e parenti che, in forme diverse, hanno dato la vita per conquistare e conservare proprio questa nostra democrazia, proprio questo nostro stato di diritto. Che alcuni esaltati privi di giustizia e misericordia hanno invano tentato di distruggere negli anni 70 e 80.