Terrorismo, pace, impegno politico
Intervista di "Camminiamo Insieme", rivista Rover/Scolte dell'AGESCI, maggio 2002
  Lí per lí me lo sono detto anch'io: ci risiamo. Non solo pensando ad un'altra famiglia pacifica, onesta e cristiana colpita a tradimento. Ma anche ad un paese che non sarà mai normale, all'incubo di un passato che non passa mai: l'incubo di una sovranità limitata, di un sistema politico, economico e sociale nel quale periodicamente, all'improvviso, rientra in scena l'omicidio come arma politica impropria che di volta in volta ottiene l'effetto di spaventare deviare condizionare o addirittura criminalizzare e mettere a tacere una sana e necessariamente vivace dialettica democratica e sindacale. Uccidere l'uomo significa uccidere la passione civile che lo anima? Sul lungo periodo credo di no: se il sangue dei martiri era seme per la fede di tanti nuovi cristiani, anche per l'impegno civile l'esempio e il sacrificio di chi serve le istituzioni e il proprio paese può essere, ed è stato nel passato, seme di impegno e molla di rivolta morale e di riscossa. Ma sul breve e medio periodo, purtroppo, l'omicidio è efficace: spegne esistenze significative, e con esse l'impatto positivo che avevano sulla società. In piú spaventa altre persone in gamba distogliendole dal desiderio d'impegnarsi: meglio, per chi insegna all'università, stare a casa e fare i propri studi; meglio, per chi fa il magistrato o il giornalista, non occuparsi d'inchieste che riguardano mafiosi, terroristi o politici corrotti. Meglio le telenovelas, lo stadio, la discoteca: il mondo è complesso brutto e violento, inutile tentare di capirlo e trasformarlo. Venti o trent'anni fa i terroristi sintetizzavano questa triste verità col truce motto: colpiscine uno per educarne cento. Per questo il terrorismo si chiama terrorismo. In un primo momento, ti dicevo, verrebbe a tutti spontanea la riflessione "ci risiamo, non ne usciremo mai". Ma la situazione di oggi è molto diversa. Da almeno quindici anni la struttura militare delle organizzazioni terroristiche di destra e di sinistra è stata completamente smantellata, e, quel che piú conta, è definitivamente scomparsa l'area di simpatia e contiguità su cui contava e prosperava il terrorismo, fatta di nuclei minoritari, anzi minuscoli (ma violenti o violentissimi nelle parole e nei fatti), presenti un po' in tutte le scuole e in tutti i luoghi di lavoro. Fra i primi anni settanta e i primi anni ottanta si può dire che ogni settimana, fra manifestazioni non autorizzate, attentati mortali e non (in un primo periodo i terroristi sparavano alle gambe), scontri fisici fra gruppuscoli politici extraparlamentari di vario colore, per non parlare di rapimenti, bombe sui treni e rapine che finanziavano il terrorismo stesso, la cronaca registrava violenze politiche di ogni tipo. Oggi questi sono solo brutti ricordi per quelli della mia età, cose quasi incredibili per quelli che hanno vent'anni. La situazione è oggi, ripeto, molto diversa da allora. Dopo la metà degli anni ottanta quel terrorismo è sparito. Dalla fine degli anni ottanta ad oggi, poi, la democrazia italiana è profondamente mutata per tante ragioni, difficili da sintetizzare. La piú importante è forse la piú recente: l'ingresso nel gruppo di testa dell'Euro ha, a mio avviso, non solo ridotto enormemente i nostri rischi economici, ma ha anche reso meno fragile la nostra democrazia. Ciò non vuol dire che la democrazia italiana ed europea non corra oggi alcun rischio: ogni generazione, diceva mio padre, deve pagare un prezzo se vuole trasmettere la libertà alla generazione successiva. Ma i rischi sono diversi. Il terrorismo di oggi è totalmente privo di radici nella società, ed è per questo anche piú oscuro e difficile da collocare rispetto al passato (sul quale pure pesano, e penso soprattutto al caso Moro, ombre e misteri non del tutto chiariti). Certo, con un po' d'imbecillità e faciloneria, non è impossibile fornirgli nuove radici - penso ad esempio ai Black Bloc di Genova e in genere alla possibilità d'infiltrazione e inquinamento violento nell'area del cosiddetto antagonismo sociale. Oltre a questo ci sono altri rischi per la libertà - per ora solo in Italia - che non c'erano allora: la concentrazione della quasi totalità di giornali, radio, televisioni e perfino cinema e case editrici nelle mani di uno solo, che per giunta è adesso anche capo del governo. Oppure, su scala mondiale, la concentrazione del software, anche quello di rete, nelle mani di uno solo. Ma il verbo temere si addice ai fifoni. Martin Luther King ricordava questo proverbio: "La Paura bussò alla porta. La Fede andò ad aprire. Non c'era nessuno." Oggi come nei lontani anni del vero terrorismo, non chi teme per le sorti la democrazia, ma chi la ama, chi crede in essa, chi è disposto a pagare per essa un prezzo può sperare di farla irrobustire, trasmettendola alla generazione successiva. Ieri ho partecipato alla manifestazione "Israele deve vivere" insieme a molti amici della comunità ebraica di Roma. Per commentare la tragedia della Palestina ci vorrebbero molte parole. Questa mia scelta di ieri può risparmiarne alcune. Sono convinto del diritto all'esistenza d'Israele. Sono altresí convinto che la politica del suo premier Sharon, oltre a fare del male a tanti innocenti, stia molto danneggiando Israele. Sono infine convinto che Arafat abbia responsabilità altrettanto, se non piú gravi di Sharon - prima fra tutte quella di non aver firmato la pace con Barak e Clinton, il che, oltre a mantenere aperto il conflitto che oggi insanguina quella regione, ha spianato la strada elettorale a Sharon (in Israele infatti, contrariamente a tutti gli stati confinanti, vige la democrazia rappresentativa basata su libere elezioni). Almeno due generazioni sono cresciute nell'odio nell'insicurezza e nel non riconoscimento del reciproco diritto alla coesistenza pacifica: in queste condizioni è a mio avviso un fatto notevole che non ci siano kamikaze anche fra i giovani israeliani, non è strano il fatto che ne esistano fra i palestinesi. Il problema della sicurezza di Israele e del diritto dei palestinesi è tragicamente complesso e meriterebbe molte altre riflessioni, ma non si può fare a meno di parlarne almeno sommariamente quando ci s'interroga sui ragazzi che si fanno saltare per aria insieme a passeggeri di autobus che tornano dal lavoro o da scuola, o frequentatori di bar e pizzerie. Dividerei la domanda in tre parti: (1) Esiste qualcosa per cui vale la pena uccidersi? In linea di principio no, ma a volte è difficile distinguere un'azione virtuosa che porta con sé un enorme rischio (ad esempio tentare di salvare qualcuno in un incendio o in un naufragio) da un vero e proprio suicidio. (2) Esiste qualcosa per cui vale la pena farsi uccidere? Direi di sí, almeno per un cristiano: l'amore di Dio e del prossimo. Per questo amore ha affrontato la morte Gesú; per questo, sulle sue orme, l'hanno affrontata molti cristiani. A volte in modo piú evidentemente legato all'amore di Dio, come Pietro e Paolo a Roma (e altri, lontano da Roma, anche oggi); a volte per amore del prossimo, come Massimiliano Kolbe, che offrí la sua vita nei lager per salvare quella di un altro. Si diceva ribelle per amore anche un'altra vittima dei lager nazisti, il partigiano cristiano Teresio Olivelli. E questo introduce la terza parte, che in realtà aggiungo io e mancava nella domanda originale: (3) esiste qualcosa per cui vale la pena uccidere qualcun altro? La risposta mi pare molto simile a quella del suicidio: in linea di principio no, ma a volte è difficile distinguere un'azione virtuosa che porta con sé un enorme rischio di far del male o uccidere (ad esempio tentare di difendere da un aggressore un bambino in pericolo) da un vero e proprio omicidio. In altre parole, mentre è inconcepibile, almeno per un cristiano, proporsi a freddo di suicidarsi e/o di uccidere qualcun altro (come nel caso dei kamikaze, ma anche della pena di morte, attualmente in vigore non solo in Cina o in Nigeria, ma anche negli Stati Uniti), si possono dare situazioni nelle quali ci si trova di fronte a scelte eroiche o tragiche, e non è sempre ovvio dove sia il bene maggiore o il male minore. Il partigiano cristiano Teresio Olivelli, ribelle per amore, o i 9500 soldati italiani morti a Cefalonia con le armi in pugno dopo l'8 settembre del 1943, commemorati l'anno scorso dal presidente Ciampi (qualcuno avrà visto il bellissimo speciale Tg1 curato da Paolo Giuntella, mio ex vecchio lupo e capo Clan), fanno riflettere su questi dilemmi. Ho già chiacchierato molto. La risposta è appunto sviluppata a fondo nel messaggio del Papa per l'ultima giornata della pace, che consiglio a chiunque non l'abbia letto, ed è all'incirca questa: sul medio e lungo periodo quello che appare come un paradosso risulta invece l'unica via ragionevole per costruire la pace. Anche la mia esperienza e l'esperienza italiana col terrorismo lo suggeriscono. Non l'ho detto prima, ma il fatto che l'azione repressiva della giustizia sia stata accompagnata, nel nostro Paese, da un atteggiamento di riconciliazione e perdono da parte di diverse famiglie delle vittime e da una legislazione tutto sommato umana sulle pene alternative al carcere (anche se ancora molto c'è da fare) ha stroncato l'odio sul nascere e contribuito ad un rapido ed efficace superamento di quegli anni. Giustizia e perdono sono due facce della stessa medaglia. Il Papa dice in relativamente poche pagine molte cose importanti su questo argomento, come ho avuto occasione di scrivere anche in un "pezzo" per il quotidiano Avvenire; se ai lettori di Camminiamo Insieme può interessare un approfondimento, potreste indicare loro le pagine web su cui trovare il discorso del Papa (eventualmente anche quel mio articolo, molto meno importante). Veramente proprio mio padre e lo scoutismo mi hanno insegnato che il primo e piú importante modo di servire la Patria è quello di fare bene il proprio lavoro ed essere fedeli ai propri impegni familiari, parrocchiali, associativi. A questa scuola s'impara e si mette alla prova, con l'aiuto di Dio, la propria capacità di servire gli altri. S'impara anche che per amare e servire gli altri, anche nei contesti piú semplici e quotidiani, non basta essere illuminati dalla fede ed accesi dal desiderio del bene, ma occorre da un lato conoscere l'altro, gli altri, l'ambiente in cui si vive e la sua storia, e dall'altro avere in mano un metodo con cui affrontare i problemi. In altre parole ci vuole conoscenza e competenza, come ricordava quasi quarant'anni fa Giovanni XXIII nell'enciclica "Pacem in Terris. Quando questa parte ordinaria, eppure cosí difficile, della vita è ben impostata, è fatta: il resto viene da sé. Abbiamo realizzato la nostra promessa scout, e se il Signore - attraverso la vita e la storia - ci chiamerà ad ampliare l'orizzonte del nostro servizio a forme nuove e anche pubbliche, noi "saremo pronti", come dice il motto degli Scout. Questa, almeno, è la storia delle persone piú significative ed incisive da me incontrate, a cominciare da Romano Prodi, nella mia breve esperienza politica del 95-96. La domanda della canzone è bella e drammatica. In proposito mi ha consolato un anno fa, mentre l'ultimo dei nostri quattro figli si preparava alla prima comunione, vedere una lunghissima (molti metri) striscia di carta preparata dalle sue catechiste. Cominciava con il Big Bang, circa 15 miliardi di anni fa; poi girava sulle quattro pareti della stanza del catechismo, scandita da vari eventi: a circa un terzo c'erano disegnati i primi organismi viventi e le piante, a circa due terzi i primi mammiferi, e verso la fine c'era il disegno di un omino con la clava in mano: l'homo erectus, solo 1-2 milioni di anni fa! Nell'ultimo pezzetto poi, pochi centimetri dalla fine (che rappresentava il presente), c'era (dopo altri punti vicinissimi che rappresentavano Abramo e Mosè) un puntino rosso: Gesú, incarnazione, rivelazione, morte e risurrezione. La striscia della storia del catechismo di mio figlio suggerisce che, sulla scala temporale della nostra storia di uomini, la piena rivelazione dell'amore di Dio in Gesú è cosa molto, molto recente. A noi 2000 anni sembrano tanti, ma per centinaia di migliaia di anni siamo stati inseparabili dalla nostra fedele clava; occorre quindi prevedere, senza scoraggiarci, che ci vorrà ancora molto tempo prima che l'odio sia definitivamente estirpato dal nostro cuore e il progetto di Dio sull'uomo compiuto per tutti, su tutta la Terra. Noi aspettiamo e prepariamo quel giorno, cui probabilmente assisteremo solo dopo la risurrezione dai morti. Nel frattempo non ci meravigliamo troppo che il male esista ancora dentro e fuori di noi, ma andiamo avanti, certi che il bene sia destinato a vincere alla fine. La promessa scout dovrebbe valere per sempre, quindi mi ritengo ancora scout. Rispondendo: l'ho già detto prima, e lo sintetizzo con le parole di una vecchia canzone di Lucio Dalla: "ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è di essere normale". Credo che la cattiva politica sia frutto di una cattiva società: se tutti facessimo meglio il nostro dovere, fossimo piú onesti e leali, meno inclini alle scorciatoie e alle furberie, a cominciare dal lavoro e dallo studio di tutti i giorni, anche i nostri rappresentanti politici, che ci somigliano tanto, sarebbero migliori. Alla fine ogni Paese ha i politici che si merita: molti difetti della nostra classe politica riflettono i nostri difetti. Per questo sono convinto che il lavoro educativo, missione dell'AGESCI ma anche degli insegnanti di ogni ordine e grado, e anche di tutti i genitori, sia uno dei modi piú importanti di partecipare alla crescita anche politica del proprio paese. Ma certo in un sistema politico sano e funzionante dovrebbero esistere, almeno per chi vuole partecipare piú da vicino alla politica in senso stretto, spazi tempi e modi normali e sostenibili di animazione, incontro e confronto sul territorio fra partiti politici e singoli cittadini (a maggior ragione movimenti e associazioni). Chi ha voglia di lavorare per l'ambiente o per i disabili trova molti ambiti in cui un volontario che ha voglia d'impegnarsi è il benvenuto, e viene subito utilizzato e valorizzato. Questo con la politica non succede, salvo rare eccezioni. Se stiamo qui a domandarci come si fa a partecipare alla vita politica vuol dire quindi che qualcosa si è gravemente inceppato e il momento non è molto propizio da questo punto di vista. In queste condizioni la mia opinione (e anche la mia personale scelta: sono da tempo tornato alla vita di tutti i giorni, dopo un intenso anno di politica attiva fra il 95 e il 96) è che non valga la pena d'infilarsi, o provare ad infilarsi a tutti i costi in uno dei troppi partiti, diventando magari in breve tempo un altro dei troppo numerosi professionisti della politica che compaiono solo sotto elezioni e fanno scappare le persone normali non appena aprono bocca. A me pare meglio utilizzare questo temporaneo deficit - in sé negativo - di partecipazione, quest'intervallo di forzata stasi dell'impegno diretto, per "portarsi avanti" acquistando conoscenze e competenze, ed essere cosí pronti a servire, anche con la politica, quando ci sarà (e sarà fra pochi anni, ne sono certo) di nuovo bisogno di molta gente normale come noi, e si riapriranno nuovi canali, stavolta funzionanti, di partecipazione popolare. Insomma direi: ancora per un po', meglio studiare che agire ad ogni costo: leggere bene almeno un quotidiano; riflettere sull'Europa e sul mondo, sulla politica e sull'economia, magari leggendo qualche libro; confrontarsi in gruppo, invitando persone valide a farci qualche lezione. Naturalmente con le orecchie tese, scrutando l'oscurità, pronti a partecipare, se ci sembra che lo meritino, anche ad azioni collettive immediate: ma senza mai dimenticare il nostro motto, che ci vuole sempre pronti, né quello che diceva anche Gramsci, dal carcere, ai giovani del suo tempo: preparatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. links:
Messaggio del Papa per la giornata della Pace 2002
"Ma giustizia e perdono non fanno a pugni", Avvenire 30/12/2001