Riconciliazione e famiglia

di Giovanni Bachelet, Famiglia Domani 3/97, pagg. 56-59 (Quaderni CPM, editrice LDC Torino)

"Quando torni a casa picchia moglie e figli: tu non sai il motivo, ma loro lo sanno." Questo famoso proverbio cinese provoca in genere grande ilarità nelle nostre famiglie, probabilmente perché, condensando in poche parole il quadro tragicomico di una famiglia dominata da un padre-padrone e da rapporti di sfiducia totale e di violenza, testimonia una mentalità, un'epoca e una dinamica di gruppo lontane anni luce dall'esperienza quotidiana.

Eppure la famiglia resta, per i cristiani e per tutti uno snodo cruciale e un banco di prova esigente della vita comune. Alcune ragioni sono legate al nostro tempo: la famiglia è immersa in una transizione epocale, profeticamente intuita e coraggiosamente affrontata dal Concilio trent'anni fa, ma di lunga durata e tutt'altro che conclusa. I ruoli tradizionali sono stati sconvolti, e si fa strada, almeno come linea di tendenza (positiva), la parità di responsabilità economiche, organizzative ed educative fra marito e moglie; i nuovi ruoli, in via di definizione, sono occasione di grazia e di fatica, e richiedono molta flessibilità.

La famiglia è inoltre priva dei supporti sociali e culturali che fino a 20-30 anni fa parevano rafforzarne dall'esterno la stabilità, valorizzando nel sentire comune il sacrificio della carriera (o di altri lati della vita) in funzione dei figli. Magari anche in passato, piú che promuovere un modello cristiano di fedeltà e corresponsabilità coniugale, questi supporti alla famiglia incoraggiavano la capacità di pazientare e chiudere un occhio del "coniuge debole", in un mercato del lavoro commisurato alle esigenze del "coniuge forte". Ma i supporti c'erano, e anche una famiglia veramente cristiana poteva trarne qualche sostegno.

Infine, mentre un tempo si poteva (ragionevolmente?) assumere che scuola, parrocchia, vita associativa e sportiva dessero ai figli un messaggio sostanzialmente coerente sugli aspetti piú importanti della vita, oggi viviamo il progetto educativo familiare piú o meno senza rete. Vivere gli aspetti familiari della grande transizione con competenza, allegria e coraggio, dando un contributo cristiano alla sua evoluzione anziché esserne travolti, richiede un supplemento d'intelligenza, di amore, di creatività e di sicurezza di sé. Richiede grande fede e anche grande affiatamento umano nella coppia, che vanno entrambi coltivati e rinnovati con cura anche attraverso spazi e momenti propri, come ci ricordava qualche anno fa Mons. Nosiglia ad un incontro per fidanzati.

Al di là, e forse ben piú delle specificità del nostro tempo, c'è indubbiamente un fatto costitutivo, una sfida comune a tutte le epoche - da Caino e Abele alle tragedie greche - e cioè che la famiglia, cellula elementare di ogni società, è punto di incontro profondo e radicale delle persone, nel quale le diverse inclinazioni, necessità e aspirazioni sono destinate o a plasmarsi, compenetrarsi e riformularsi nell'amore, o a scontrarsi, soffocarsi, ignorarsi a vicenda. Qui si toccano con mano espressioni come "dare la vita" o "morire per gli altri", insieme alla gioia profonda promessa dal Signore a chi lo segue sulla Croce; o si può, al contrario, sprofondare nell'indifferenza e nell'inferno - l'inferno sono gli altri, affermava drammaticamente J.P. Sartre - se è vero (lo sosteneva un famoso giornalista qualche anno fa) che chiunque, almeno una volta nella vita, ha segretamente desiderato di strozzare il suo coniuge, suo padre o suo figlio.

Nella sua apparente ordinarietà la vita familiare è perciò, per i cristiani, una difficile e permanente palestra di amore, riconciliazione e perdono, una inesorabile cartina al tornasole della gioia e della autenticità evangelica, che precede per importanza e difficoltà i grandi gesti "una tantum", che invece fanno colpo e vanno in prima pagina. Ogni volta che sui giornali si parla di perdono - che si tratti di Priebke, di terroristi o di mafiosi, di tangentisti o di lanciatori di sassi dal cavalcavia - mi sorprendo a scoprire che in un paese di antica tradizione cristiana alcuni basilari insegnamenti evangelici, divulgati dai catechismi di ogni epoca, siano trattati alla stregua dei precetti di una setta sconosciuta.

Gesú ci ha detto ad esempio che, se nostro fratello ha qualcosa contro di noi, dobbiamo noi, prima di portare l'offerta all'altare, andare a cercare il fratello e riconciliarci con lui; ma il fatto che un cristiano cerchi di offrire per primo la mano a chi gli ha fatto un torto grave continua ad apparire come un'eroica stravaganza. Non meno sorprendente è la confusione fra perdono e indifferenza (o addirittura approvazione e giustificazione) di fronte al male. Come se Gesú avesse detto all'adultera "Nessuno ti ha condannata? Neanch'io ti condanno: come hai visto, chi piú chi meno, peccano tutti. Va' e pecca ancora." Ricorrente è poi l'equazione immediata fra riconciliazione cristiana e provvedimenti di amnistia: leggendo i giornali o guardando la televisione sembrerebbe che Tommaso D'Aquino, Dante Alighieri, Tommaso Moro, Cesare Beccaria (o in anni piú recenti Jacques Maritain, i Costituenti e i Padri Conciliari) non abbiano mai riflettuto sull'organizzazione della città terrena e sulla funzione della pena e della giustizia in questo mondo.

Ma anche senza bisogno di invocare grandi figure del passato è proprio la vita familiare, come mi è capitato di dire recentemente ad alcuni amici, che fa emergere con chiarezza il nesso delicato ma ineliminabile fra perdono e correzione fraterna, fra amore e verità, fra pace e giustizia. Il cristiano sa di dover amare perché Dio per primo lo ha amato; come ricorda la prima lettera di S. Giovanni, chi non ama suo fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Quindi anche quando subisce torti, soprusi e incomprensioni, il cristiano - solo che reciti il Padre Nostro - ricorda di avere molti arretrati e debiti con Dio e con gli altri, di aver bisogno del perdono e di dover continuamente rendere grazie per tutti i doni che ha ricevuto. Il proverbio cinese potrebbe quindi essere rovesciato. "Quando torni a casa, ringrazia e chiedi scusa a tua moglie e ai tuoi figli: loro non sanno il motivo, ma tu lo sai." In una comunità piccola e affiatata, se le cose vanno bene, è sicuramente merito anche degli altri; se qualcosa non va, è probabilmente anche colpa nostra.

La comune coscienza del peccato induce ad un atteggiamento di umiltà e gratitudine anziché di giudizio e condanna verso gli altri; ma chiunque abbia vissuto in una comunità piccola o grande, e in particolare in una famiglia, sa che le responsabilità, nel bene e nel male, sono alla fine strettamente personali, e talvolta, per ragioni educative, di rispetto della verità e di equilibrio della comunità, risulta addirittura necessario farle emergere con chiarezza. Il perdono non può diventare un alibi per l'annacquamento e la confusione delle responsabilità. L'esame di coscienza, i bilanci e i progetti personali, di coppia e di famiglia sono insomma un dovere, non un optional. Che fare se nei bilanci qualcosa non quadra?

Don Costa diceva che il Nuovo Testamento in questi casi prevede due vie: perdonare settanta volte sette o correggere fraternamente il proprio fratello (prima in privato, poi davanti a qualche altro membro della comunità, e infine davanti a tutta l'assemblea); ma aggiungeva che la correzione risulta tanto spontanea, e il perdono, viceversa, tanto difficile, che ad abbondare sul versante del perdono non si sbaglia quasi mai. In quegli stessi anni '60, turbolenti e fecondi anche per la vita della Chiesa, mio padre aggiungeva, tratteggiando i rapporti di collaborazione fra associazioni cristiane, comunità locali e vescovi, che le famiglie in cui si strilla sempre non sono il miglior esempio di concordia e collaborazione.

Ma in ogni comunità, in particolare in una comunità piccola e intensa come la famiglia, anche tenendo conto di queste sagge raccomandazioni, non ci si può esimere (come genitori ma anche come coniugi), quando serve, da qualche verifica a muso duro. Anzi è proprio in un clima generale di tolleranza e di benevolenza che acquistano valore le poche occasioni in cui si discute e si corregge una rotta sbagliata, le poche cose importanti su cui non si può transigere a fronte delle tante opinabili (o irreparabili), sulle quali è giusto essere magnanimi e di larghe vedute.

Come distinguere fra le une e le altre occasioni? San Tommaso Moro, in una famosa preghiera, diceva: Signore, dammi la forza di cambiare le cose che posso cambiare, dammi la forza di accettare le cose che non posso cambiare, e dammi l'intelligenza di capire la differenza. Come accennavo prima parlando di intelligenza, la pace, il perdono e la giustizia possono infatti essere concretamente conciliate solo da persone e comunità non solo bene intenzionate - di buone intenzioni sono come si sa lastricate le vie dell'inferno - ma anche intellettualmente ed affettivamente mature, e molto affiatate.

Un mio confessore alcuni anni fa mi suggerí un criterio molto umano, che non ho piú dimenticato: se un certo giorno raggiungi la certezza di dover correggere qualcosa d'importante non nella tua vita (su quella si può e si deve intervenire subito), ma in quella di qualcuno dei tuoi familiari, aspetta altri dieci giorni. Se dopo dieci giorni te ne ricordi ancora, prendi l'iniziativa e parlane con franchezza, pur con tutto l'amore e la responsabilità del tuo ruolo di padre o di marito. Se invece te ne sei già scordato, beh, è segno che non era cosí importante come ti era sembrato.

E' un criterio forse semplice e infantile, ma l'ho trovato sempre molto utile: lasciare accumulare rancori e scontentezze per un malinteso amore di pace - la vecchia idea di pazientare, sopportare e chiudere un occhio - può far marcire e deteriorare i rapporti pur in una cornice di formale concordia; se questa politica poteva avere un senso in un diverso contesto socio-culturale (e personalmente sono convinto che non lo avesse neppure allora), essa è davvero improponibile oggi, in un mondo in cui una coppia non perfettamente affiatata, una famiglia non saldamente solidale e cristiana, sono destinate fatalmente ad esplodere sotto le molteplici pressioni e tensioni del mondo esterno. Ma anche la tendenza a strillare, protestare e discutere (magari per amore di sincerità e verità) su ogni difficoltà e su ogni intoppo può risultare esplosiva e fatale. L'equilibrio fra perdono e correzione, fra amore e verità, fra giustizia e pace è il vero volto del perdono cristiano a tutti i livelli: un equilibrio difficile e gioioso, fatto di preghiera, di approfondimento biblico, di sacramenti, ma anche di saggezza umana e di accorto discernimento.