Democrazia non virtuale

di Giovanni B. Bachelet , in l'Unità, 11 giugno 1995 (articolo di fondo, giorno dei referedum)

Silenzio, parla il popolo sovrano. Fin da piccolo le regole della campagna elettorale, la pausa quasi sacra fra il venerdì sera e la mattina di domenica, mi facevano molta impressione. Anche la nostra bandiera su tutte le scuole, per qualche giorno trasformate in seggio dove genitori e nonni andavano a mettere una misteriosa croce sulla scheda, mi dava il senso profondo dell'importanza di quell'evento. Ho continuato a credere alla centralità del consenso popolare nonostante i miei anni al Liceo Mamiani, anni di disprezzo della "democrazia formale" che preparavano gli anni di piombo. Ho continuato a crederci nonostante gli anni di Craxi, Forlani, Andreotti e Berlusconi, convinto che gli eletti rappresentano gli elettori. Rappresentano le speranze e le vigliaccherie, gli ideali e le meschinità, le illusioni e le furbizie. Ho sempre pensato che ci può salvare solo un progetto convincente e coerente di crescita culturale, civile, politica e morale dei cittadini tutti; e saputo che questo può richiedere grande pazienza e grandi sacrifici.

Negli ultimi anni però qualcosa ha alterato in modo grave la dinamica del libero consenso. Venerdì, di ritorno dalla manifestazione conclusiva della campagna elettorale per il Sì ai referendum televisivi, mio figlio (dieci anni) ha acceso Telemontecarlo ed ha trovato un lungo spot per il No. Mi ha chiesto: non è la televisione del signore pelato che parlava per il Si'? (alludeva a Curzi) E perche' allora c'e' uno spot per il No? Gli ho spiegato che esistono delle regole, che in regime di libero mercato ogni televisione è tenuta a vendere gli spazi pubblicitari a chi glieli paga, e il signore pelato e i suoi manager rispettano queste regole. Ma non era del tutto convinto. Mi ha chiesto se anche Berlusconi faceva spot per il Sì nelle sue televisioni. E mi ha anche chiesto: chi non ha soldi come paga gli spot? Indubbiamente l'esperienza di questa campagna referendaria, aggravata dalla decadenza del pur discutibile decreto della "par condicio", ha rivelato con chiarezza quale sarà la condizione della democrazia se la legge Mammì non verrà abrogata. Anche a prescindere dal fatto che il proprietario di un impero televisivo sia direttamente presente in politica, la concentrazione televisiva è un formidabile pericolo per la libera formazione dell'opinione e del consenso. Chiunque crede nella democrazia e nel libero mercato, perciò, darà il suo sereno Si'. Mammì a parte, resta un quesito generale sulla validità dello strumento del referendum. Ad alcuni non è mai piaciuto, perfino quando toccava problemi gravissimi di coscienza o di democrazia, come è quello delle televisioni. L'ormai frequente associazione di tanti quesiti diversi e la futilità di alcuni di essi suggeriscono poi, come diceva di recente Prodi ai coordinatori del suo movimento, che l'istituto del referendum vada riformato, magari innalzando la soglia del numero di firme al 4% dell'elettorato (attuale soglia di accesso per la quota proporzionale alle elezioni politiche generali), e limitando il numero massimo di quesiti contemporanei. Queste riforme servirebbero a mantenere al referendum il suo significato democratico originario di verifica popolare delle scelte parlamentari più controverse o delicate: nell'attuale labirinto, infatti, il voto rischia di sganciarsi dal quesito e basarsi su criteri solo politici e partitici.

Ad esempio oggi un referendum dai risultati dirompenti, quello della legge per l'elezione delle amministrazioni comunali, rischia di passare sotto silenzio. La proposta di abrogazione del doppio turno nei comuni superiori a 15mila abitanti, se passasse, rischierebbe di abolire l'unica legge elettorale che ha veramente recepito lo spirito dei referendum di Mario Segni, restituendo ai cittadini la scelta fra due candidati, due schieramenti e due programmi, come avvertiva ieri Rutelli sulla Stampa. Il No al referendum dei Comuni sembra a molti altrettanto importante che il Sì a quelli televisivi: sarebbe davvero una beffa se si tornasse indietro su questo punto.

Nei comizi finali ho sentito serpeggiare qualche pessimismo. Ma condizionamenti televisivi, prepotenza e squilibri così evidenti e teorizzati da rasentare il ridicolo, fino agli attacchi a tutti gli organi di garanzia costituzionale, potrebbero tornare indietro come boomerang sulla coalizione di destra: anche gli Italiani più tiepidi hanno capito che a tutto c'e' un limite, e difenderanno col voto il pluralismo televisivo e il diritto a scegliere i loro sindaci. Oltre al paese televisivo e virtuale c'e' infatti un paese reale. Nel paese reale, da quando centro e sinistra marciano uniti grazie al progetto di Prodi, l'onda lunga di destra, l'ombra lunga degli anni ottanta, diventa ogni giorno di più un brutto ricordo. Certo, il bello della democrazia è proprio che non si sa come va a finire fino a che si sia contato l'ultimo voto nell'ultima scuola di paese. Ma le grandi novità degli ultimi mesi fanno sperare a tutti i democratici che, col voto di oggi, si concluda un incubo e si pongano le premesse per un nuovo ciclo, per un avvenire d'Italia migliore del passato.