Rimetti a noi i nostri debiti
di Giovanni Bachelet (Collegio Antonianum Padova marzo 2001; Associazione Famiglia Aperta Bergamo marzo 2002)

Alle medie il mio professore di religione propose un tema: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". L'annuncio che Dio è buono, ci perdona e ci vuole buoni e misericordiosi come lui è costitutivo del messaggio di Gesú - scrivemmo in parecchi: per questo è inserito anche nell'unica preghiera insegnata ai discepoli. Con gli anni ho scoperto che un Dio ricco di misericordia, l'amore di Dio e del prossimo, il perdono e la benevolenza non sono un'esclusiva cristiana: sgorgano dall'ebraismo e perciò anche nell'islamismo se ne trovano germi e tracce importanti. Ma del cristianesimo questi elementi rappresentano il nucleo centrale; fin dal suo primo discorso discorso nella sinagoga di Nazareth (Lc. 4, 14-21) Gesú annunzia un tempo nuovo di perdono, liberazione, conversione. E' proprio questa la buona notizia, il Vangelo; e "liberaci dal male" è l'invocazione che conclude il Padre Nostro.

Una comune nozione di bene e male

Non tutti si rendono pienamente conto di un fatto elementare: annunciare o ricevere il perdono richiede una chiara nozione di bene e male - il contrario di quello che alcuni chiamano buonismo e altri "relativismo etico". Il primo compito del diavolo custode destinatario delle "Lettere di Berlicche" (libretto di C.S. Lewis che consiglio a chi non l'ha letto) sarà infatti quello di distrarre la mente del suo "assistito" da imbarazzanti quesiti riguardanti il bene e il male, deviandola verso dilemmi piú futili: moderno o antico? comune o eccentrico? conservatore o progressista? Secondo l'Arcidiavolo Berlicche una tale cortina fumogena facilita un graduale scivolo verso l'Inferno.

Solo due vie, il bene e il male

Per chi supera questa tentazione preliminare ne vengono naturalmente altre; ma quella di confondere bene e male si ripresenta anche dopo, in forme subdole. Particolarmente insidiosa per preti, politici, sindacalisti, imprenditori e, in genere, per cristiani con gravi responsabilità collettive, è l'idea stigmatizzata da un famoso personaggio di G.K. Chesterton. Non esiste "a fin di bene" - diceva una volta Padre Brown - esistono solo il bene e il male. Fin dall'inizio la Bibbia ci avverte che ci sono effettivamente solo due vie, quella del bene e quella del male; spiega inoltre con chiarezza che seguendo il bene potremo goderci la vita, mentre allontanandoci dalla Legge di Dio vivremo male (già adesso, qui, su questa terra: Dt. 30, 15-20). Anche per Gesú ci sono solo due vie, e la pienezza di vita promessa a chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica non riguarda solo un premio dopo la morte: comincia fin d'ora con il "centuplo quaggiú" (Mc. 10, 29-30).

Fortuna, disgrazia e peccato

Eppure quaggiú malattie e catastrofi naturali da un lato, e conseguenze della cattiveria umana dall'altro, appaiono non solo gagliarde ed estese, ma tutt'altro che limitate a quelli che "se le sono volute". Al cristiano non si addice l'ottimismo imbecille che nega l'evidenza del male, ma neppure le fastidiose semplificazioni propagandistiche (da quando siamo cristiani non ci ammaliamo e non litighiamo piú). Molti autori della Bibbia (ad esempio Salmi 13, 22, 35, 44) si stupiscono della prosperità dell'empio e si rivolgono con fiducia ma a volte anche con disperazione a Dio, quando questi sembra abbandonare il giusto al proprio destino. Gesú approfondisce il concetto, ad esempio con il cieco nato (Gv. 9,1-sgg) o con i morti della torre di Siloe (Lc, 13,1-5): le disgrazie ci sono, i peccati pure, ma non è possibile collegare meccanicamente colpe commesse e disgrazie subite.

Una via d'uscita

Gesú non dà lunghe ed esaurienti spiegazioni sull'origine del male (cosí generazioni di cristiani, a cominciare da Agostino, continueranno ad arrovellarsi col quesito: '"si Deus est, unde malum?") ma, predicando l'amore di Dio e del prossimo e caricandosi sulle spalle questo male che ci opprime, offre una chiara via d'uscita, di riscatto e di libertà, e garantisce a chi lo segue non l'esenzione da dolori, malattie, persecuzioni e guai (cui lui stesso, innocente e buono, non si è sottratto) ma una vita nuova, libera, gioiosa, proiettata fin d'ora verso l'eternità.

L'ottimista conosce il male del mondo

A mio zio Adolfo, padre Gesuita ed irriducibile ottimista, piaceva molto questo proverbio: "L'ottimista conosce il male del mondo, il pessimista lo scopre giorno per giorno." E' essenziale non essere colti di sorpresa dal male, essere ben coscienti che ce n'è sempre un po' (dappertutto, in tutti i tempi, in tutte le istituzioni, in tutte le comunità), per non illudersi con facili e non cristiani trionfalismi mondani, per non restare delusi di fronte ai fallimenti e guai propri e altrui, per riconoscere e pregustare con tranquilla serenità il bene che pure cresce, pian piano, di giorno in giorno.

Grano e zizzania

La parabola della zizzania (Mt. 13, 24-30) è di aiuto non solo per mettere in secondo piano il problema intellettuale dell'origine del male ("un nemico ha fatto questo") e per illustrare la pervasività del male, ma anche per riflettere, come altri insegnamenti di Gesú, sul confine fra bene e male. Come mai non è possibile, su questa terra, fare piazza pulita del male? Perché, dice qui Gesú, se ci convinciamo che la colpa è "dei cattivi" e si tratta solo di identificarli e sterminarli, faremo una strage da cui nessuno, alla fine, si salverà: su questa terra il confine fra bene e male è molto frastagliato, non coincide con l'appartenenza a nessuna istituzione visibile, passa addirittura dentro ciascuno di noi. Per questo, se cercassimo di strappare la zizzania, morirebbe anche il grano buono.

Anche i santi peccano

In altre parole nessuno, ci dice Gesú, è completamente cattivo. Il fondatore degli Scout, Robert Baden Powell, ci credeva: secondo lui anche nel peggior ragazzo c'è almeno il 5% di buono, e da quel 5% si può partire per un ottimo lavoro educativo. Viceversa, nessuno è completamente buono. Tutti, anche i santi peccano: san Pietro stesso ha rinnegato Gesú. Lo ricordava qualche anno fa il Papa, aiutandoci a liberarci da un'agiografia deteriore, nella quale la vita dei santi è depurata da ogni macchia e umana debolezza; col rischio che, anziché esempio concreto di vita cristiana, diventi irraggiungibile e scoraggiante.

La prima pietra

Dal fatto che in misura maggiore o minore il male è dentro ciascuno di noi si possono però trarre conclusioni molto diverse. Una decina d'anni fa un importante politico, per giustificare moralmente la corruzione che veniva a galla, dichiarò pubblicamente in Parlamento: "Rubavano tutti, perché scandalizzarsi?". Come se Gesú avesse detto all'adultera: "Nessuno ti ha condannata? Vedi, chi piú chi meno peccavano tutti. Sono una massa di ipocriti. Non farti troppi scrupoli e continua anche tu a fare il comodo tuo." Invece Gesú ragiona in modo diverso. Dapprima egli invita chi è senza peccato a scagliare la prima pietra, ma poi, quando tutti se ne sono andati, dice all'adultera: "Neanch'io ti condanno. Va' e non peccare piú". Se amore e misericordia sono autentici, essi sono tutt'uno con la giustizia e col bene, non sono separabili dall'invito alla conversione.

L'offerta di una vita migliore

L'esortazione a non peccare piú, che Gesú offre insieme al perdono all'adultera (nella quale è rappresentato ciascuno di noi) è dettata da amore e fiducia in lei, e non teme il rifiuto o l'impopolarità. Gesú infatti sa che sul medio e lungo periodo le affermazioni del Deuteronomio risultano verificate anche su questa terra: il male distrugge anche e soprattutto chi lo compie, e la prosperità dell'empio si rivela presto superficiale ed effimera, come ricorda ad esempio il Salmo 37. Gesú sa che se l'adultera perseverasse in una vita di tradimenti e falsità, presto ne sarebbe lei stessa stritolata; e d'altra parte è convinto che in lei ci siano sufficienti energie per ricominciare una vita buona e felice.

Un amore paziente ed esigente

Questa combinazione di amore, perdono e correzione è tipica del rapporto affettivo-educativo che intercorre fra un grande e un piccolo; non a caso Gesú, per sintetizzare l'enorme amore ma anche le grandi aspettative che Dio nutre verso ciascuno di noi, ha scelto la metafora degli affetti familiari: un buon papà, un padre nostro che è nei cieli. Quando avevo tre o quattro anni, mia nonna mi ritrovò intontito, col sedere per terra, vicino al suo comodino, dopo una formidabile scossa elettrica che avevo preso svitando l'interruttore del suo lumino da notte. Ricordo che prima rise di cuore vedendomi cosí stralunato, poi mi abbracciò, ma alla fine mi sgridò e mi disse di non farlo piú. Cosí immagino che sia anche l'amore di Dio per noi, almeno stando all'esempio e all'insegnamento di Gesú: un amore sorridente, paziente, però anche esigente. L'amore di chi prende sul serio le nostre potenzialità e la nostra libertà, e vuole il nostro bene. Come il padre misericordioso (Lc. 15, 11) con il figliol prodigo, ma anche con l'altro figlio (in quale dei due ci riconosciamo?).

Perché anche noi li rimettiamo ai nostri debitori

In quel tema delle medie scrissi che ero preoccupato: avevo recitato tanti Padrenostri senza pesare bene quelle ultime parole terribilmente impegnative, con le quali, data la mia scarsa capacità di perdonare gli altri, rischiavo di darmi la zappa sui piedi. In quegli anni, anche alla luce di quel che Gesú ribadisce dopo il Padre Nostro nel vangelo di Matteo ("se non perdonate agli uomini, nemmeno il padre vostro vi perdonerà i peccati" Mt. 6), coglievo soprattutto l'esortazione morale, la stessa che Lucia, nei Promessi Sposi, rivolge all'Innominato: Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia. E questo è certamente il primo significato. Piú tardi mi è parso di vederci un significato complementare. Anche perché, diversamente da Matteo, la versione del Padre Nostro riportata da Luca (Lc. 11, 1-4) non dice "come noi", ma "perché anche noi rimettiamo i debiti a chi ci è debitore".

Come un imprinting

L'espressione sottolinea maggiormente che è Dio a fare il primo passo verso di noi. Grazie all'amore e al perdono di Dio riusciamo poi, a nostra volta, ad amare e perdonare gli altri. La nostra è solo una modesta e doverosa condivisione con altri di un dono gratuitamente ricevuto. Se con gli altri siamo meno generosi di quanto Dio lo sia stato con noi, si tratta certamente di una mancanza. Ma è Dio che ha fatto la prima mossa. Questo è il succo di un'altra famosa parabola di Gesú, sul re generoso e il servo avaro, che parla anch'essa di debiti e crediti (Mt 18, 23-35). Nello stesso vangelo di Matteo il primo motivo che Gesú fornisce per amare non solo i buoni ma anche i cattivi non è l'implicita minaccia di (meritate) ritorsioni divine del capitolo 6, ma è la scoperta di essere figli di un padre buono che è nei cieli, è il desiderio di assomigliargli, di essere perfetti come lui (Mt 5). Anche qui Gesú rimanda all'esperienza educativa, alla prima infanzia. Chi da piccolo non ha avuto affetto è fortemente limitato nella capacità di fidarsi, di amare, di perdonare (e dovremmo sempre tenerlo presente, prima di giudicare gli altri): queste capacità si acquistano infatti, quasi senza saperlo, nel ricevere amore, fiducia, pazienza dai propri cari. Nello stesso modo, man mano che lo sperimentiamo, l'amore di Dio, come quello di un buon papà, di una buona mamma, come un imprinting, accende e catalizza in noi l'amore verso gli altri, diffondendosi di cuore in cuore, come un'onda, nel tempo e nello spazio.

[Giovanni Bachelet, conferenza tenuta al Collegio Antonianum di Padova nel marzo 2001 e all'Associazione Famiglia Aperta a Bergamo nel marzo 2002]