Apertura della seconda marcia "Sentiero della Libertà - Freedom Trail"
Sulmona 24/5/2002

Molte grazie al Preside Professor Pelino e a tutti gli organizzatori di questa magnifica esperienza di cultura e di vita. Come il Preside sa, ho aderito entusiasticamente, piú di un mese fa, al Sentiero della Libertà per merito di mia moglie Silvia (professoressa di Storia e Filosofia al Convitto Nazionale di Roma), insieme alle figlie e a diversi alunni di mia moglie. Non prevedevo di dover parlare all'inaugurazione. Lo ringrazio quindi anche per avermi invitato a parlare adesso e cercherò di non approfittare troppo di quest’onore.

Il Preside ha detto una frase che anche mio padre mi diceva: la libertà non è conquista definitiva; ogni generazione deve pagare un prezzo per conquistarla o conservarla. Cosí è capitato a mio padre, che ha pagato con la vita il suo servizio allo Stato democratico. Ringrazio il Preside per averlo voluto ricordare proprio ora. Ma dalla guerra ad oggi è capitato a molti altri. Ieri abbiamo commemorato i dieci anni della morte di Giovanni Falcone, della moglie e della loro scorta. Molti altri, che spesso non hanno nemmeno la fortuna di essere ricordati per nome - poliziotti, carabinieri, finanzieri - hanno silenziosamente dato la vita in questi cinquant'anni perché tutti potessimo continuare a vivere liberi, sicuri, in pace.

Il ricordo di quanti hanno dato la vita per la Patria, a cominciare dalla "resistenza umanitaria" di queste vallate dopo l'8 settembre 1943 (all'origine del nostro Sentiero della Libertà), mi suggerisce una riflessione.

Non sempre è stato ovvio quale fosse la Patria, quale fosse il dovere da svolgere, perché e per chi valesse la pena di dare la vita.

Ottantasette anni fa, il 24 maggio del 1915, era facile capire quale fosse il dovere dei ragazzi della vostra età: arruolarsi, andare a combattere per Trento e Trieste, e poi, dopo Caporetto, resistere ad ogni costo lungo la linea del Piave.

Nel 1943 invece, quarantanove anni fa, non era facile discernere il bene dal male nel pieno di una catastrofe militare e morale, nella quale, all'improvviso, gli amici diventavano nemici e viceversa. Che cosa voleva dire servire la Patria?

Mio zio Luigi de Januario nel giugno del 1940, a vent’anni, interruppe gli studi partendo volontario in Marina. In quel momento, per lui, servire la Patria voleva dire partecipare alla guerra in cui era entrata l'Italia, fare il proprio dovere come tutti i ragazzi della sua età, rinunciare al privilegio del "rinvio" concesso agli studenti universitari.

Ma poi il 9 settembre '43, durante una breve licenza, la nave su cui prestava servizio, la corazzata Roma (in rotta verso Malta secondo l'ordine ricevuto: consegnarsi agli Inglesi), fu affondata dai tedeschi nel porto di Napoli. Un missile centrò la ciminiera con risultati catastrofici. Due Ammiragli, 86 Ufficiali e 1264 Uomini di equipaggio morirono, per lo piú bruciati vivi.

Mio zio si era salvato per miracolo. Rimase ancora qualche settimana a Napoli, si uní ad altri militari sbandati e ai partigiani e partecipò alla sollevazione di Napoli contro l'esercito nazista.

Per lui, come per gli oltre diecimila soldati di Cefalonia, come per le centinaia di migliaia d’internati militari italiani detenuti nei campi di concentramento tedeschi, la coerenza nel servizio della Patria non fu ovvia; fu frutto di una drammatica revisione, di un nuovo e personale discernimento.

Questo è stato vero anche dopo. Oggi, ad esempio, tutti riconoscono in Falcone e Borsellino due esempi luminosi di servizio alla Patria. Ma allora, me lo ricordo bene, importanti uomini di governo e di cultura li definivano con disprezzo "i professionisti dell'Antimafia".

Anche quando morí mio padre, i terroristi che lo uccisero dicevano di essere i veri eredi dei partigiani, e consideravano il nostro stato democratico alla stregua di un regime totalitario e nazista. Chi era davvero fedele agli ideali di libertà della Resistenza e chi cercava di trascinare l'Italia in un baratro totalitario? Oggi sembra ovvio, ma per molti ragazzi che allora avevano la vostra età non era facile orientarsi. Sembra incredibile, eppure è cosí.

Come mai, quando ci si sta in mezzo, è tanto difficile orientarsi? Perché, come disse Giovanni XXIII (Pacem in Terris 1963), "non basta essere illuminati da una fede ed accesi dal desiderio del bene per penetrare di sani principi una civiltà..."; occorre anche essere "...scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti."

Certo, arrivati al momento della barbarie, per molti eroi semplici, che ricorderemo in questo sentiero, non fu necessario studiare per capire da quale parte fosse la libertà e l'umanità. Ma noi che oggi abbiamo il privilegio di poter studiare abbiamo maggiori responsabilità: quella di leggere il giornale e partecipare anzichè farci i fatti nostri, quella di costruire il bene, quella di resistere al male prima che arrivi alle vette di orrore che la storia ha già conosciuto: prima che ci sia di nuovo bisogno di eroi.

Il vostro studio in questi anni di scuola, in particolare lo studio della storia, che questa manifestazione vi fa vivere e capire in un modo efficace e diverso dal solito, è perciò uno strumento essenziale. La memoria di ieri è essenziale per capire chi siamo oggi, e da che parte stanno, oggi, la giustizia e la libertà; per capire che cosa, oggi, possiamo e dobbiamo fare per promuoverle e difenderle.

Concluderei quindi con un motto caro ad Antonio Gramsci, che pagò con lunghi anni di carcere i suoi ideali: istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza!

[Giovanni Bachelet]

una versione ridotta di questo discorso è apparsa come articolo sul quotidiano "Il Centro" dell'8 giugno 2002