La scelta energetica
       riflessioni di un cittadino qualunque
         su Camminiamo Insieme, rivista AGESCI dei 16-18enni, aprile-maggio 1987

Voteremo sulle centrali nucleari? Nel momento in cui scrivo non è dato saperlo, e la crisi di governo con le sue alchimie spesso difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - eppure importanti per il futuro di tutti - è alle sue prime battute. In ogni modo, se ci interessa il problema energetico, dovremo sforzarci di capire e partecipare alla vita politica e alle scelte dei partiti, perché, al di là dei referendum, saranno i nuovi equilibri di governo, che noi influenziamo direttamente con l'elezione dei nostri rappresentanti in Parlamento, a definire la nostra politica energetica. In questa prospettiva riflettere sull'energia risulta un esercizio comunque utile, anche se le riflessioni proposte sono solo quelle di un cittadino qualunque che legge un po' i giornali.

I referendum non forniscono nuove leggi

La Costituzione italiana prevede soltanto referendum abrogativi, e perciò, se il referendum si terrà, quanti sono contrari alle centrali nucleari a fissione non avranno occasione di esprimere positivamente le loro opinioni su come provvedere al rifornimento energetico dell'Italia nei prossimi anni, ma solo di abolire un certo numero di articoli di legge e rendere cosí praticamente impossibile l'installazione di nuove centrali nucleari in Italia. In ogni modo quindi, sia che le centrali a fissione vengano "bocciate" dal referendum (vittoria dei sí), sia che vengano "promosse" (vittoria dei no), sia che, infine, i referendum non si tengano affatto, sarà alla fine il Parlamento, che è l'organo di piú alta rappresentatività dei cittadini, a dover approvare un nuovo piano che risolva organicamente il problema dell'approvvigionamento energetico dell'Italia.

Energie alternative. Quali?

Per alcuni anni abbiamo sentito parlare di riscaldamento delle case con energia solare, di energia eolica (mulini a vento), di piccole cadute d'acqua da sfruttare per generare energia elettrica: tutte fonti d'energia che potrebbero soddisfare localmente il fabbisogno di abitazioni o comunità rurali. Il tema è interessante (e richiederebbe, credo, qualche modifica alle leggi vigenti, secondo le quali l'esclusiva della produzione di energia elettrica spetta all'ENEL), ma occorre precisare subito che in un Paese industriale come il nostro questi consumi locali costituiscono una parte piccola del fabbisogno energetico. Le fonti appena citate, è un dato su cui quasi tutti ormai concordano, non sono, da sole, in grado di soddisfare tutto il fabbisogno energetico dei prossimi anni. Le reali alternative alla fissione nucleare, almeno per il momento, restano quindi le fonti convenzionali: petrolio, metano, carbone. Oltre all'energia idroelettrica, da noi quasi del tutto sfruttata.

Fabbisogno energetico e indipendenza.

Come si sa, la maggior parte dei consumi energetici di un paese industrializzato proviene appunto dall'attività industriale e dai servizi, come i trasporti, ad essa collegati. L'Italia, in particolare, vive di un'economia di trasformazione, cioè (semplificando) importa materie prime ed esporta merci ottenute dalla loro lavorazione. E' evidente che la grande mole di energia necessaria a questo processo dovrebbe essere il piú possibile prodotta in casa e non, a sua volta, importata: la "bolletta energetica" da pagare per il petrolio arabo, per il metano russo o algerino o per l'energia elettronucleare francese (per chi non lo sapesse, già oggi parte della nostra elettricità viene dalle centrali a fissione della Francia) grava sulla nostra economia e quindi sulla buona riuscita dei nostri prodotti sui mercati internazionali. Già adesso importiamo parecchia energia; se poi la nostra economia industriale si svilupperà ancora (il che per molti è augurabile), il nostro fabbisogno crescerà ulteriormente. Tutta l'energia che non avremo prodotto in casa dovremo importarla e pagarla, il che, oltre a peggiorare la nostra bolletta, ci renderà sempre piú dipendenti dai Paesi che ci vendono l'energia: se alcuni di essi (come capitò con gli arabi nel 1973) chiuderanno improvvisamente i rubinetti, saremo nei guai fino al collo. Inoltre, di fronte a un fabbisogno crescente, è opportuno ricordare che a tutte le fonti sono associati, in diversa misura, pericoli d'incidente e cause strutturali d'inquinamento e d'impatto ambientale; e che fin d'ora, in aggiunta alla campagna antinucleare, gli ecologisti sono anche impegnati praticamente contro tutti i tipi di grandi centrali elettriche oggi realizzabili.

Modelli di sviluppo.

Naturalmente lo scenario appena presentato dà per scontato uno sviluppo industriale dell'Italia: non c'è Paese industrializzato, dagli USA all'Unione Sovietica, che non abbia affrontato e risolto il problema energetico nei termini descritti sopra. E' significativo ad esempio che, poco dopo il disastro di Chernobyl, Gorbaciov si sia affrettato a ribadire l'importanza e la necessità del programma nucleare civile in Russia, guardandosi bene dal prendere in considerazione l'ipotesi di chiudere le sue centrali a fissione. In linea di principio è tuttavia possibile rifiutare del tutto la prospettiva dello sviluppo industriale e immaginare altri scenari, anche se manca, in questo caso, la possibilità di riferirsi ad esperienze concrete di altri Paesi. Anche chi ragiona in questi termini, però, non dovrebbe limitarsi a dei "no", ma proporre, responsabilmente, alternativi praticabili di sviluppo che rispondano a domande banali del tipo: come sfamare e scaldare cinquanta milioni di persone senza le industrie? Prima dell'era industriale, escluse le piccole élites delle classi dominanti, il grosso della popolazione viveva nella fame e nella povertà ed era periodicamente sterminato da carestie e pestilenze. Coloro che propongono di abbandonare del tutto lo sviluppo industriale non vogliono certo il ritorno a un simile passato. Dovrebbero allora impegnare fantasia e intelligenza per associare alle parole "nuovo modello di sviluppo", di per sé prive di significato concreto, nuove idee per un modello di sviluppo realisticamente proponibile alla società in cui vivono. Solo questa fatica intellettuale, al di là degli slogan, può dare un contributo non effimero a un domani piú umano. Senza dimenticare, nella foga della polemica ambientalista, l'emarginazione e le ingiustizie fra uomini e fra popoli, drammi che interpellano non meno seriamente il nostro attuale modello di sviluppo economico.

Follie pseudo-ecologiche

Va chiarito fino in fondo che, in assenza di un progetto razionale, il rifiuto globale della civiltà industriale, se davvero praticato e vissuto a livello di massa, non farebbe che riportare l'umanità a un ben triste "equilibrio ecologico": quello darwiniano, la selezione naturale in cui solo i forti sopravvivono. Penso con angoscia, ad esempio, al recente caso della figlia neonata di una coppia di stravaganrti ecologisti nordici che giravano l'Europa con un asinello, vivendo nella natura e nutrendosi di erbe. In Veneto, coi primi freddi, la bambina è morta di fame e di stenti fra le loro mani. Al giornalista che li interrogava hanno risposto mestamente: se l'è ripresa la Natura... vuol dire che non ce l'avrebbe fatta comunque. Il fatto è che la natura è anche crudele; e gran parte del progresso scientifico, medico e industriale è servito proprio a rendere possibile la vita non solo a quell'esiguo gruppo di predestinati dotati di un patrimonio genetico a prova di bomba, ma anche a tutti gli altri: handicappati, malati, anziani e appunto neonati: per questi ultimi è notoriamente preferibile una calda abitazione e un biberon di latte (magari Nestlé) rispetto a una gelida tendina e una minestra di ortiche.

Ruolo positivo degli ambientalisti

Tutto questo argomentare non deve far dimenticare che lo sviluppo industriale può anch'esso avere un volto crudele: è quindi scorretto farne un mito di fronte al quale tutte le critiche vengono bollate come pericolose nostalgie per l'età della pietra. Le critiche, anche le piú radicali, servono, invece, purché siano recepibili da una società aperta; la aiutano a correggere la rotta. Per questo motivo, pur non riuscendo affatto ad affermare incerti modelli alternativi che non convincono la maggioranza della gente, i movimernti ecologici hanno avuto un ruolo positivo nelle società occidentali, incidendo profondamente nella coscienza di tutti e tenendo viva l'attenzione generale sul problema dell'ambiente, che è reale e importantissimo. Cosí i tanti che sono favorevoli ad una prospettiva di sviluppo industriale, ma sono al tempo stesso convinti che tale sviluppo debba essere centrato sul benessere dell'uomo (anche al prezzo di rendere, ad esempio, un piú costose le misure di protezione ambientale) hanno a un certo punto premuto sulla classe dirigente ottenendo nuove leggi in questa direzione. Le centrali nucleari sono un buon esempio. Si può probabilmente dire che, se i vari incidenti nucleari accaduti in Occidente hanno prodotto danni insignificanti rispetto a Chernobyl, questo è anche dovuto al fatto che, sotto la pressione complessiva dell'opinione pubblica (purtroppo impensabile in Unione Sovietica), le industrie occidentali sono state costrette a produrre, contro una logica di puro profitto, centrali piú costose, ma piú sicure.

Il caso italiano

Quando però dal movimento di opinione e di protesta si passa ad azioni politiche  sulle quali si cerca il consenso di tutti gli elettori (è il caso dei referendum), occorre riferirsi alle condizioni del Paese in cui si vive e saper formulare proposte organiche e convincenti. Argomenti razionali vanno sostituiti alle analisi apocalittiche e non sempre costruttive; ideali e principi supremi vanno calati nella peculiarità del proprio caso. Oggi gli ecologisti puntano in Italia alla totale messa al bando delle centrali nucleari. In tutti i Paesi occidentali movimenti analoghi si fanno promotori di questo tipo di "moratoria". Il problema è lo stesso per tutti? In Italia come all'estero, ben prima del referendum, un notevole rallentamento nell'installazione di nuove centrali si era già registrato, soprattutto a causa delle crescenti difficoltà nella localizzazione delle nuove centrali (dovute alla cattiva accoglienza della popolazione interessata), ma anche ai maggiori costi e minori profitti impliciti nelle aumentate misure di sicurezza, e di riflesso anche alle incertezze dell'industria nucleare sulle prospettive a lungo termine di questo tipo di centrali. La differenza essenziale fra noi e gli altri Paesi industriali è che in Italia siamo praticamente privi di centrali nucleari, mentre ad esempio in USA, Germania e Francia il numero delle centrali nucleari già in funzione è abbastanza elevato (ordine di grandezza: decine di centrali installate). Quindi se loro si fermano e non ne installano piú, continueranno comunque a disporre di questa fonte di energia per un bel pezzo. Se ci fermiamo noi, invece, ne resteremo totalmente sprovvisti. E' una bella differenza, soprattutto considerando che, anche se non costruiamo centrali nostre, come utenti siamo già ampiamente nucleari (compriamo energia elettronucleare dalla Francia), e come territorio siamo comunque esposti in caso di incidenti altrui (proprio Chernobyl lo ha mostrato).

Vale la pena, ormai?

Quali che siano state le cause di questo nostro ritardo, un tema piuttosto oscuro del nostro passato energetico, la situazione italiana è quella appena descritta; cosicché anche chi è del tutto favorevole a una crescita di tipo industriale e non ha alcun pregiudizio contro le centrali nucleari si sorprende a domandarsi: vale la pena, considerate le difficoltà di localizzazione e lo sforzo mondiale verso nuove forme di energia "pulita", d'imbarcarsi proprio adesso in un programma di centrali a fissione che saranno pronte fra dieci anni? Può essere utile confrontarsi con l'opinione del leader di una potenza nucleare militare e civile, la Francia: Mitterrand ha detto di recente che riguardo alla fissione è sensato che i Paesi sviluppati continuino nei loro programmi e i Paesi sottosviluppati, che ormai hanno perso il treno, proseguano invece con i programmi convenzionali. E' un parere che risponde alla domanda appena posta; peccato che la fonte e il modo di espressione alimentino il dubbio che questo tipo di suggerimento, che ci relega al livello dei Paesi meno sviluppati, sia un tantino strumentale alla supremazia di quelle potenze che hanno ormai le loro centrali e il loro surplus energetico garantito per parecchi anni. Ma l'argomento ha una sua logica e va meditato.

Attenzione ai numeri e agli esperti.

La campagna in corso sulle tematiche dell'energia nucleare ha dispegato una varietà di argomenti. Queste mie riflessioni s'intitolano volutamente "riflessioni di un cittadino qualunque", perché, essendo io fisico e ricercatore, ho la sensazione che la fisica c'entri molto poco con la formazione di un'opinione precisa sulla politica energetica in generale e sulle centrali a fissione in particolare. E mi meraviglio che tanti colleghi non sentano mai l'esigenza di premettere ai loro frequenti pronunciamenti pubblici le poche, ma utili parole: "Io, che nel mio lavoro di ricerca di tutto mi sono occupato meno che di centrali nucleari, penso che...". Questo aiuterebbe l'opinione pubblica a inquadrare i loro interventi, a capire che c'è una gran parte di valutazione personale nelle loro prese di posizione, e che per questo non c'è da scandalizzarsi che esperti dello stesso campo siano presenti in entrambi gli schieramenti. A volte penso anche che la grande occasione di parlare a un pubblico vasto avrebbe potuto essere spesa dagli scienziati per fini piú modesti e insieme piú universali e imparziali: ad esempio per introdurre il concetto di probabilità, che purtroppo da noi non si studia a scuola, e sarebbe invece necessario a discutere in termini non propagandistici tutta la problematica del rischio d'incidente. Ma purtroppo, per la fisica come per gli altri campi del sapere interpellati dalla problematica energetica, il ruolo degli esperti è spesso apparso simile a quello dei grandi nomi della cultura, della scienza e perfino dello sport e dello spettacolo, arruolati dai partiti solo al momento della competizione elettorale. Una testimonianza d'impegno rispettabile e spesso generosa, che però, nel caso della controversia energetica, finisce con l'inquinare perfino i pochi, difficili pronostici su cui gli esperti (i veri esperti di questo campo) potrebbero essere cauti, competenti e forse concordi, come quello sulla data di realizzazione del primo reattore nucleare a fusione (il cosiddetto nucleare pulito e sicuro, che per ora non esiste), o sulla vera entità del nostro fabbisogno energetico nel 2000.

Gusto della politica e responsabilità verso il Paese.

Per fortuna proprio il fatto che tanto fra i fisici e gl'ingegneri, quanto fra gli economisti, non ci sia un'opinione unanime, ci restituisce il senso e il gusto di una scelta che è politica ed è quindi di tutti: perché in democrazia i tecnici ci possono aiutare a capire le conseguenze e le implicazioni delle varie opzioni possibili, ma siamo noi cittadini, o i nostri rappresentanti in Parlamento, ad avere l'ultima parola. Facciamo dunque tesoro di questo tempo di confronto politico e ideale e non accontentiamoci della superficie, né dei semplici argomenti che qui ho accennato, e possono essere al massimo un punto di partenza. Leggiamo, informiamoci, seguiamo i dibattiti criticamente, studiamo: il futuro ha bisogno di tutta la nostra intelligenza. Sarebbe triste, infatti, che dopo tanto rumore, anziché sviluppare un piú profondo senso di corresponsabilità e partecipazione ai problemi energetici e ambientali nostri e di quelli che verranno dopo di noi, ci rimanesse solo il ricordo di qualche sfilata con maschere antigas, di qualche scheletro gigante tirato fuori da sotto il tavolo, di qualche sfuriata televisiva, di qualche proclama di esperti anti- o pro-nucleare. Sarebbe triste, soprattutto, che vincesse anche in noi, alla fine, la furberia immorale e irrazionale che ha già caratterizzato molte contraddizioni dei nostri politici: facciamo le centrali, sí, ma... il piú lontano possibile da casa mia.

[Giovanni Bachelet]