Voteremo sulle centrali nucleari? Nel
momento in cui scrivo non
è
dato saperlo, e la crisi di governo con le sue alchimie spesso
difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - eppure
importanti per il futuro di tutti - è alle sue prime battute. In
ogni modo, se ci interessa
il problema energetico, dovremo sforzarci di capire e partecipare alla
vita
politica e alle scelte dei partiti, perché, al di là dei
referendum, saranno i nuovi equilibri di governo, che noi influenziamo
direttamente
con l'elezione dei nostri rappresentanti in Parlamento, a definire la
nostra politica energetica. In questa prospettiva riflettere
sull'energia risulta un esercizio comunque utile, anche se le
riflessioni proposte sono solo
quelle di un cittadino qualunque che legge un po' i giornali.
I referendum non forniscono nuove leggi
La Costituzione italiana prevede soltanto referendum abrogativi, e
perciò, se il referendum si terrà, quanti sono contrari
alle centrali nucleari a fissione non avranno occasione di esprimere
positivamente le loro opinioni su come provvedere al rifornimento
energetico dell'Italia nei prossimi
anni, ma solo di abolire un certo numero di articoli di legge e rendere
cosí praticamente impossibile l'installazione di nuove centrali
nucleari
in Italia. In ogni modo quindi, sia che le centrali a fissione vengano
"bocciate" dal referendum (vittoria dei sí), sia che vengano
"promosse"
(vittoria dei no), sia che, infine, i referendum non si tengano
affatto,
sarà alla fine il Parlamento, che è l'organo di
piú
alta rappresentatività dei cittadini, a dover approvare un nuovo
piano
che risolva organicamente il problema dell'approvvigionamento
energetico
dell'Italia.
Energie alternative. Quali?
Per alcuni anni abbiamo sentito parlare di riscaldamento delle case
con energia solare, di energia eolica (mulini a vento), di piccole
cadute
d'acqua da sfruttare per generare energia elettrica: tutte fonti
d'energia
che potrebbero soddisfare localmente il fabbisogno di abitazioni o
comunità
rurali. Il tema è interessante (e richiederebbe, credo, qualche
modifica alle leggi vigenti, secondo le quali l'esclusiva della
produzione
di energia elettrica spetta all'ENEL), ma occorre precisare subito che
in
un Paese industriale come il nostro questi consumi locali costituiscono
una parte piccola del fabbisogno energetico. Le fonti appena citate,
è
un dato su cui quasi tutti ormai concordano, non sono, da sole, in
grado
di soddisfare tutto il fabbisogno energetico dei prossimi anni. Le
reali
alternative alla fissione nucleare, almeno per il momento, restano
quindi
le fonti convenzionali: petrolio, metano, carbone. Oltre all'energia
idroelettrica,
da noi quasi del tutto sfruttata.
Fabbisogno energetico e indipendenza.
Come si sa, la maggior parte dei consumi energetici di un paese
industrializzato proviene appunto dall'attività industriale e
dai servizi, come i
trasporti, ad essa collegati. L'Italia, in particolare, vive di
un'economia
di trasformazione, cioè (semplificando) importa materie prime ed
esporta merci ottenute dalla loro lavorazione. E' evidente che la
grande
mole di energia necessaria a questo processo dovrebbe essere il
piú
possibile prodotta in casa e non, a sua volta, importata: la "bolletta
energetica"
da pagare per il petrolio arabo, per il metano russo o algerino o per
l'energia
elettronucleare francese (per chi non lo sapesse, già oggi parte
della
nostra elettricità viene dalle centrali a fissione della
Francia)
grava sulla nostra economia e quindi sulla buona riuscita dei nostri
prodotti
sui mercati internazionali. Già adesso importiamo parecchia
energia;
se poi la nostra economia industriale si svilupperà ancora (il
che
per molti è augurabile), il nostro fabbisogno crescerà
ulteriormente.
Tutta l'energia che non avremo prodotto in casa dovremo importarla e
pagarla,
il che, oltre a peggiorare la nostra bolletta, ci renderà sempre
piú dipendenti dai Paesi che ci vendono l'energia: se alcuni di
essi
(come capitò con gli arabi nel 1973) chiuderanno improvvisamente
i rubinetti, saremo nei guai fino al collo. Inoltre, di fronte a un
fabbisogno
crescente, è opportuno ricordare che a tutte le fonti sono
associati,
in diversa misura, pericoli d'incidente e cause strutturali
d'inquinamento
e d'impatto ambientale; e che fin d'ora, in aggiunta alla campagna
antinucleare,
gli ecologisti sono anche impegnati praticamente contro tutti i tipi di
grandi centrali elettriche oggi realizzabili.
Modelli di sviluppo.
Naturalmente lo scenario appena presentato dà per scontato
uno sviluppo industriale dell'Italia: non c'è Paese
industrializzato, dagli USA all'Unione Sovietica, che non abbia
affrontato e risolto il problema energetico nei termini descritti
sopra. E' significativo ad esempio che,
poco dopo il disastro di Chernobyl, Gorbaciov si sia affrettato a
ribadire
l'importanza e la necessità del programma nucleare civile in
Russia,
guardandosi bene dal prendere in considerazione l'ipotesi di chiudere
le
sue centrali a fissione. In linea di principio è tuttavia
possibile
rifiutare del tutto la prospettiva dello sviluppo industriale e
immaginare
altri scenari, anche se manca, in questo caso, la possibilità di
riferirsi
ad esperienze concrete di altri Paesi. Anche chi ragiona in questi
termini,
però, non dovrebbe limitarsi a dei "no", ma proporre,
responsabilmente,
alternativi praticabili di sviluppo che rispondano a domande banali del
tipo:
come sfamare e scaldare cinquanta milioni di persone senza le
industrie?
Prima dell'era industriale, escluse le piccole élites delle
classi
dominanti, il grosso della popolazione viveva nella fame e nella
povertà
ed era periodicamente sterminato da carestie e pestilenze. Coloro che
propongono di abbandonare del tutto lo sviluppo industriale non
vogliono certo il
ritorno a un simile passato. Dovrebbero allora impegnare fantasia e
intelligenza per associare alle parole "nuovo modello di sviluppo", di
per sé
prive di significato concreto, nuove idee per un modello di sviluppo
realisticamente proponibile alla società in cui vivono. Solo
questa fatica intellettuale, al di là degli slogan, può
dare un contributo non effimero a un domani piú umano. Senza
dimenticare, nella foga della polemica ambientalista, l'emarginazione e
le ingiustizie fra uomini e fra popoli, drammi che interpellano non
meno seriamente il nostro attuale modello di
sviluppo economico.
Follie pseudo-ecologiche
Va chiarito fino in fondo che, in assenza di un progetto razionale, il
rifiuto globale della civiltà industriale, se davvero praticato
e vissuto a livello di massa, non farebbe che riportare
l'umanità a un ben triste "equilibrio ecologico": quello
darwiniano, la selezione naturale in cui solo i forti sopravvivono.
Penso con angoscia, ad esempio, al recente caso della figlia neonata di
una coppia di stravaganrti ecologisti nordici che giravano l'Europa con
un asinello, vivendo nella natura e nutrendosi di erbe. In Veneto, coi
primi freddi, la bambina è morta di fame
e di stenti fra le loro mani. Al giornalista che li interrogava hanno
risposto mestamente: se l'è ripresa la Natura... vuol dire che
non ce l'avrebbe fatta comunque. Il fatto è che la natura
è anche crudele;
e gran parte del progresso scientifico, medico e industriale è
servito proprio a rendere possibile la vita non solo a quell'esiguo
gruppo di predestinati dotati di un patrimonio genetico a prova di
bomba, ma anche a tutti gli
altri: handicappati, malati, anziani e appunto neonati: per questi
ultimi
è notoriamente preferibile una calda abitazione e un biberon di
latte
(magari Nestlé) rispetto a una gelida tendina e una minestra di
ortiche.
Ruolo positivo degli ambientalisti
Tutto questo argomentare non deve far dimenticare che lo sviluppo
industriale può anch'esso avere un volto crudele: è
quindi scorretto farne un mito di fronte al quale tutte le critiche
vengono bollate come pericolose nostalgie per l'età della
pietra. Le critiche, anche le piú radicali, servono, invece,
purché siano recepibili
da una società aperta; la aiutano a correggere la rotta. Per
questo
motivo, pur non riuscendo affatto ad affermare incerti modelli
alternativi
che non convincono la maggioranza della gente, i movimernti ecologici
hanno
avuto un ruolo positivo nelle società occidentali, incidendo
profondamente nella coscienza di tutti e tenendo viva l'attenzione
generale sul problema dell'ambiente, che è reale e
importantissimo. Cosí i tanti che sono favorevoli ad una
prospettiva di sviluppo industriale, ma sono
al tempo stesso convinti che tale sviluppo debba essere centrato sul
benessere dell'uomo (anche al prezzo di rendere, ad esempio, un
piú costose
le misure di protezione ambientale) hanno a un certo punto premuto
sulla
classe dirigente ottenendo nuove leggi in questa direzione. Le centrali
nucleari sono un buon esempio. Si può probabilmente dire che, se
i vari incidenti nucleari accaduti in Occidente hanno prodotto danni
insignificanti rispetto a Chernobyl, questo è anche dovuto al
fatto che, sotto
la pressione complessiva dell'opinione pubblica (purtroppo impensabile
in Unione Sovietica), le industrie occidentali sono state costrette a
produrre,
contro una logica di puro profitto, centrali piú costose, ma
piú
sicure.
Il caso italiano
Quando però dal movimento di opinione e di protesta si passa ad
azioni politiche sulle quali si cerca il consenso di tutti gli
elettori (è il caso dei referendum), occorre riferirsi alle
condizioni
del Paese in cui si vive e saper formulare proposte organiche e
convincenti. Argomenti razionali vanno sostituiti alle analisi
apocalittiche e non sempre costruttive; ideali e principi supremi vanno
calati nella peculiarità del proprio caso. Oggi gli ecologisti
puntano in Italia alla totale messa al bando delle centrali nucleari.
In tutti i Paesi occidentali movimenti analoghi si fanno promotori di
questo tipo di "moratoria". Il problema è lo stesso per tutti?
In Italia come all'estero, ben prima del referendum, un notevole
rallentamento nell'installazione di nuove centrali si era già
registrato, soprattutto a causa delle crescenti difficoltà nella
localizzazione delle nuove centrali (dovute alla cattiva accoglienza
della popolazione interessata), ma anche ai maggiori costi e minori
profitti impliciti nelle aumentate misure di sicurezza, e di riflesso
anche alle incertezze dell'industria nucleare sulle prospettive a lungo
termine di questo tipo di centrali. La differenza essenziale fra noi e
gli altri Paesi industriali è che in Italia
siamo praticamente privi di centrali nucleari, mentre ad esempio in
USA,
Germania e Francia il numero delle centrali nucleari già in
funzione
è abbastanza elevato (ordine di grandezza: decine di centrali
installate).
Quindi se loro si fermano e non ne installano piú, continueranno
comunque a disporre di questa fonte di energia per un bel pezzo. Se ci
fermiamo
noi, invece, ne resteremo totalmente sprovvisti. E' una bella
differenza, soprattutto considerando che, anche se non costruiamo
centrali nostre, come utenti siamo già ampiamente nucleari
(compriamo energia elettronucleare dalla Francia), e come territorio
siamo comunque esposti in caso di incidenti altrui (proprio Chernobyl
lo ha mostrato).
Vale la pena, ormai?
Quali che siano state le cause di questo nostro ritardo, un tema
piuttosto oscuro del nostro passato energetico, la situazione italiana
è quella appena descritta; cosicché anche chi è
del tutto favorevole a una crescita di tipo industriale e non ha alcun
pregiudizio contro le centrali nucleari si sorprende a domandarsi: vale
la pena, considerate le difficoltà
di localizzazione e lo sforzo mondiale verso nuove forme di energia
"pulita", d'imbarcarsi proprio adesso in un programma di centrali a
fissione che saranno pronte fra dieci anni? Può essere utile
confrontarsi con l'opinione
del leader di una potenza nucleare militare e civile, la Francia:
Mitterrand
ha detto di recente che riguardo alla fissione è sensato che i
Paesi
sviluppati continuino nei loro programmi e i Paesi sottosviluppati, che
ormai
hanno perso il treno, proseguano invece con i programmi convenzionali.
E'
un parere che risponde alla domanda appena posta; peccato che la fonte
e
il modo di espressione alimentino il dubbio che questo tipo di
suggerimento, che ci relega al livello dei Paesi meno sviluppati, sia
un tantino strumentale alla supremazia di quelle potenze che hanno
ormai le loro centrali e il
loro surplus energetico garantito per parecchi anni. Ma l'argomento ha
una
sua logica e va meditato.
Attenzione ai numeri e agli esperti.
La campagna in corso sulle tematiche dell'energia nucleare ha dispegato
una varietà di argomenti. Queste mie riflessioni s'intitolano
volutamente "riflessioni di un cittadino qualunque", perché,
essendo io fisico e ricercatore, ho la sensazione che la fisica c'entri
molto poco con la
formazione di un'opinione precisa sulla politica energetica in generale
e sulle centrali a fissione in particolare. E mi meraviglio che tanti
colleghi
non sentano mai l'esigenza di premettere ai loro frequenti
pronunciamenti
pubblici le poche, ma utili parole: "Io, che nel mio lavoro di ricerca
di
tutto mi sono occupato meno che di centrali nucleari, penso che...".
Questo
aiuterebbe l'opinione pubblica a inquadrare i loro interventi, a capire
che
c'è una gran parte di valutazione personale nelle loro prese di
posizione,
e che per questo non c'è da scandalizzarsi che esperti dello
stesso
campo siano presenti in entrambi gli schieramenti. A volte penso anche
che
la grande occasione di parlare a un pubblico vasto avrebbe potuto
essere
spesa dagli scienziati per fini piú modesti e insieme piú
universali
e imparziali: ad esempio per introdurre il concetto di
probabilità,
che purtroppo da noi non si studia a scuola, e sarebbe invece
necessario
a discutere in termini non propagandistici tutta la problematica del
rischio
d'incidente. Ma purtroppo, per la fisica come per gli altri campi del
sapere
interpellati dalla problematica energetica, il ruolo degli esperti
è
spesso apparso simile a quello dei grandi nomi della cultura, della
scienza
e perfino dello sport e dello spettacolo, arruolati dai partiti solo al
momento
della competizione elettorale. Una testimonianza d'impegno rispettabile
e
spesso generosa, che però, nel caso della controversia
energetica,
finisce con l'inquinare perfino i pochi, difficili pronostici su cui
gli
esperti (i veri esperti di questo campo) potrebbero essere cauti,
competenti
e forse concordi, come quello sulla data di realizzazione del primo
reattore
nucleare a fusione (il cosiddetto nucleare pulito e sicuro, che per ora
non
esiste), o sulla vera entità del nostro fabbisogno energetico
nel
2000.
Gusto della politica e responsabilità verso il Paese.
Per fortuna proprio il fatto che tanto fra i fisici e gl'ingegneri,
quanto fra gli economisti, non ci sia un'opinione unanime, ci
restituisce il senso e il gusto di una scelta che è politica ed
è quindi di tutti: perché in democrazia i tecnici ci
possono aiutare a capire le conseguenze e le implicazioni delle varie
opzioni possibili, ma siamo
noi cittadini, o i nostri rappresentanti in Parlamento, ad avere
l'ultima
parola. Facciamo dunque tesoro di questo tempo di confronto politico e
ideale
e non accontentiamoci della superficie, né dei semplici
argomenti
che qui ho accennato, e possono essere al massimo un punto di partenza.
Leggiamo, informiamoci, seguiamo i dibattiti criticamente, studiamo: il
futuro ha
bisogno di tutta la nostra intelligenza. Sarebbe triste, infatti, che
dopo
tanto rumore, anziché sviluppare un piú profondo senso di
corresponsabilità
e partecipazione ai problemi energetici e ambientali nostri e di quelli
che verranno dopo di noi, ci rimanesse solo il ricordo di qualche
sfilata con maschere antigas, di qualche scheletro gigante tirato fuori
da sotto il
tavolo, di qualche sfuriata televisiva, di qualche proclama di esperti
anti-
o pro-nucleare. Sarebbe triste, soprattutto, che vincesse anche in noi,
alla fine, la furberia immorale e irrazionale che ha già
caratterizzato
molte contraddizioni dei nostri politici: facciamo le centrali,
sí,
ma... il piú lontano possibile da casa mia.
[Giovanni Bachelet]