Beati quelli che piangono

Giovanni Bachelet su Nuova Responsabilità (rivista dell’Azione Cattolica), settembre 2004

domani alle tre / nella fossa comune sarà / senza il prete e la messa perché d'un suicida non hanno pietà

Cosí nel 1961 cantava Fabrizio De André nella Ballata del Michè. Non so se allora (avevo sei anni) fosse ancora vigente la dura regola canonica che ai suicidi negava il funerale in chiesa e la sepoltura al camposanto. Ma per fortuna, poco piú tardi, la regola è cambiata in favore della pietà. Ce lo ricordava don Giacomino Piana, che di Fabrizio De André era stato professore al liceo. Professore di un alunno dichiaratamente non cattolico, però interessato all’ora di religione. Una sera, davanti alla Casa Alpina di Cogne, fra un racconto sulla resistenza a Genova e un altro su come don Costa aveva raggranellato i soldi per quella casa, don Giacomino rivelò insospettate doti di voce e di memoria (aveva già piú di ottant’anni) cantandoci da capo a fondo un’altra canzone del suo ex-alunno, Preghiera in gennaio: Dio di misericordia, il tuo bel paradiso / l'hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso.

Nell’ultimo anno mi è capitato piú volte di tornare col ricordo a quella sera. Prima il marito di una cugina, poi quello di una cara amica, poi una ragazza che era stata attiva nella nostra parrocchia. Una carneficina. Fatalità o tragica tendenza statistica, sulla quale interrogarsi come cristiani? Impossibile, comunque, non interrogarsi su come la comunità cristiana cerca di vivere questo nuovo tempo di misericordia, e se davvero abbiamo fatto passi avanti. Purtroppo, come nel caso del perdono ai terroristi o della morale familiare, sembra che non esista via di mezzo fra la mancanza di pietà e di accoglienza e la benedizione delle malefatte. Forse sono ipersensibile perché in gioventú ho avuto un periodo di sbandamento grave e tremo pensando ai figli, ai nipoti e ai loro amici, ma nella preghiera dei fedeli e perfino nell’omelia mi è parso a volte di cogliere, se non proprio un’esaltazione del gesto, almeno una giustificazione logica e morale.

Quando ero ragazzo papà mi spiegò che secondo lui, contrariamente a quanto diceva Dante (che lo piazzava in fondo all’Inferno, fra i traditori), il peccato piú grave di Giuda non era stato tradire Gesú – dopotutto l’aveva tradito, certo in maniera meno grave, anche Pietro – ma il non aver creduto, pur avendolo conosciuto da vicino, che Gesú lo amasse ancora, che potesse ancora perdonarlo. Disperazione e sfiducia nell’immenso amore di Dio, insomma, sono peccati piú gravi del tradimento. Aveva aggiunto che in apparenza questo rende il suicidio un peccato imperdonabile e definitivo, e per questo la Chiesa, in passato, negava addirittura la sepoltura cristiana. Ma per fare un peccato mortale ci vuole piena coscienza e deliberato consenso: possibile che chi fa un gesto di tale cattiveria verso se stesso e verso quelli che lo amano sia davvero pienamente cosciente? E poi, negli ultimi istanti di vita, Gesú, ricco di misericordia, che ha detto “beati quelli che piangono”, non concederà a quelli che piangono un attimo di lucidità e di amore, sufficiente a pentirsi e a corrergli fra le braccia? Per questo, concludeva papà, la Chiesa deve fare come Gesú, che non è venuto per condannare, ma per salvare. E avere pietà dei vivi e dei morti. Senza per questo confondere il bene col male.