San Francesco e il dialogo

Giovanni Bachelet su Nuova Responsabilità (rivista dell’Azione Cattolica), novembre 2004


In occasione del messaggio del Papa per la giornata della pace del 2002, a pochi mesi dall'11 settembre e dalla guerra in Afghanistan, fui invitato da don Paolo Tarchi a scrivere un commento per l'Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro. Quel commento apparve poi anche in prima pagina su Avvenire, col titolo "Ma perdono e giustizia non fanno a pugni", accanto a un altro commento di Enzo Bianchi. A me l'articolo di Bianchi era molto piaciuto; fui molto fiero non solo della prima pagina di Avvenire, ma anche dell'accostamento.

Parecchio tempo dopo, navigando su Internet, mi sono accorto che Sandro Magister, sull'Espresso, ci aveva ricamato sopra una contrapposizione: "Le due correnti pro e contro la guerra che dall’11 settembre dividono il fiume cattolico sono rifluite parallele e solenni sulla prima pagina dell’ultimo numero del 2001 di Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Ha dato voce ai contro il monaco Enzo Bianchi, priore di Bose. E ai pro Giovanni Bachelet."

Veramente la mia intenzione era di stimolare i lettori a leggere il messaggio del Papa e far notare che, benché il messaggio non coincidesse banalmente con tanti (secondo me troppo facili) "senza se e senza ma", lo spiraglio lasciato all'uso della forza, che (cito) "dovrebbe essere mirata ai colpevoli e non coinvolgere interi gruppi nazionali, etnici o religiosi", era uno spiraglio minuscolo. Difficilmente riferibile alla guerra in Afghanistan (non parliamo poi di quella attuale in Iraq, che allora non era ancora scoppiata). Ma devo ammettere che si trattava di una sfumatura importante.

La cosa mi è tornata in mente quando, a ottobre, il vicepresidente del Consiglio ha tenuto il suo discorso ad Assisi, sostenendo che San Francesco non era del tutto contrario alla guerra. Mi sono fatto un esame di coscienza. Data la mia scarsa lungimiranza e la mia tendenza al rispetto dell'ordine costituito, può darsi – ho pensato – che, fossi vissuto nel milleduecento, anch'io, come tanti Pastori di allora, avrei tentato, in buona fede, di spingere il discorso di San Francesco nell'angoletto della profezia e della perfezione cristiana, nel senso di concludere che, ahimé, qualche Crociata ogni tanto tocca farla, con tanti saluti alla pace e alla perfezione cristiana. Ma è certo che San Francesco non la pensava cosí.

Nelle Fonti Francescane, che ho ripreso in mano per l'occasione, ci sono ben tredici passi che narrano concordemente la visita di San Francesco al Sultano d'Egitto; è chiaro che, mentre gli altri Cristiani si scannano coi Musulmani, San Francesco decide diversamente: fa visita, disarmato, al Sultano. E' pronto anche al martirio, invece ne conquista la stima e il rispetto. Nel partire deve addirittura rifiutare i doni del Sultano, e coglie l'occasione per l'ultima catechesi: le ricchezze di questo mondo non giovano al vero bene.

E' vero: San Francesco non ha fatto critiche frontali ai suoi Pastori né ha lanciato anatemi sui Crociati. Ha "solo" mostrato un altro modo possibile di presentare Gesú ai non credenti. Sette secoli dopo, guidati dal Papa, abbiamo chiesto scusa per le Crociate.