Nell'attesa
della Tua venuta
Giovanni Bachelet su Nuova
Responsabilità (rivista dell’Azione Cattolica), gennaio
2005
L’inizio dell’anno nuovo ci ricorda che il tempo è prezioso.
Siamo
ancora vivi, possiamo usarlo bene. Fa freddo ed è buio, ma i
giorni
cominciano ad allungarsi, annunciando che “anche dopo il piú
freddo
degli inverni / ritorna sempre la dolce primavera”, come diceva la
vecchia, bella canzone
25 aprile 1945.
I semi di bene, marciti in mezzo alle disavventure e ai rimorsi
dell’anno scorso, stanno germogliando in silenzio.
Poco dopo Capodanno, all’Epifania, si proclamano le tappe dell’anno
liturgico, strutturato (come quello ebraico) attorno alla Pasqua e alla
Pentecoste, ma arricchito, nel corso dei primi secoli, della quaresima,
della memoria di martiri e santi, del Natale e dell’avvento. I primi
cristiani, ripieni di Spirito Santo, avevano viva coscienza che questo
mondo e questa vita, pur meravigliosi, sono una prova generale del
Regno: attendevano il ritorno di Gesú da un momento all’altro.
Gesú
però aveva detto che a nessuno è dato di sapere il tempo
in cui si
ricostituirà il regno d’Israele; e mentre si prolungava l’attesa
i
cristiani scoprivano, a dispetto degli entusiasmi iniziali, che la
ricaduta nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, nelle contese e nelle
gelosie (lo si legge già nelle lettere apostoliche) era
possibile e
purtroppo non rarissima.
La Chiesa si attrezzò a una lunga attesa: mise a punto uno
sforzo
educativo capace di riproporre periodicamente occasioni di penitenza,
di rinnovato ascolto della parola di Dio, di ripresa dopo le cadute:
l’anno liturgico, nel quale si ripercorre la vita e l’insegnamento del
Signore. Emergeva intanto un altro problema. Gesú aveva
predicato la
Buona Notizia e mostrato la via della croce e della risurrezione, ma
non aveva scritto un manuale dettagliato su tutto ciò che i suoi
avrebbero dovuto fare, dall’Ascensione fino al suo ritorno.
Benché,
fino all’ultima cena, essi fossero equamente ripartiti (come noi) fra
duri di comprendonio, fifoni e traditori, Gesú si era fidato di
loro,
chiamandoli amici e non servi e promettendo lo Spirito Santo.
Quante decisioni non ovvie, aspettando il ritorno di Gesú. Come
regolarsi, per il cibo e la circoncisione, con chi non proviene dal
popolo d’Israele? Che fare quando il marito crede e la moglie no, o
viceversa? Piú tardi, diventando numerosi, come rapportarsi con
l’autorità civile? Fin dal primo Concilio di Gerusalemme,
narrato negli
Atti degli Apostoli, risultano cruciali la consultazione, il ruolo di
Pietro e l’aiuto dello Spirito Santo. Fino ai nostri giorni.
Anche oggi, infatti, il Vangelo, le Lettere e gli Atti, che ogni anno
rileggiamo, ripropongono domande non ovvie, fra cui questa: superata
l’ingenuità iniziale (oggi presente solo in qualche setta
religiosa che
ogni tanto va sulla cima di un monte ad attendere la fine del mondo),
non staremo esagerando in senso opposto? Non sarà che in questa
valle
di lagrime piangiamo molto volentieri? Che non ci distinguiamo
piú in
nulla da chi, non credendo in Dio ed escludendo un imminente ritorno di
Gesú, pone la propria sicurezza (come singolo e come
comunità) nel
conto in banca, nella casa, nei buoni rapporti coi potenti di turno? Il
pericolo di confondere la propria civiltà, la propria cultura e
i
comodi propri con il Cristianesimo dev’essere grande, se proprio
l’ultimo Concilio –in particolare la
Gaudium
et Spes, di cui ora si celebrano i quarant’anni– ha sentito il
bisogno di parlarne, con molta chiarezza.