Ubbidienza e pace

Giovanni Bachelet su Nuova Responsabilità (rivista dell’Azione Cattolica), aprile 2005


In occasione della morte di don Giussani un affermato giornalista ha attribuito agli ultimi dieci anni di Paolo VI (1968-1978) il merito di aver “salvato la Chiesa dal disastro”. Poiché nei precedenti cinque anni Paolo VI aveva presieduto e concluso il Concilio, nonché scritto Encicliche come Ecclesiam Suam
, Populorum Progressio ed altre, nel lettore disattento poteva sorgere il dubbio che il disastro da cui Paolo VI avrebbe salvato la Chiesa fosse null'altro che la grandiosa opera di rinnovamento conciliare da lui stesso guidata nel periodo immediatamente precedente. Questa suddivisione fa sorridere in sé, ma anche perché, in altri tempi, altri commentatori (o magari gli stessi, chissà) criticavano Paolo VI per motivi opposti: nell'ultimo decennio si sarebbe spaventato delle troppe novità e avrebbe cominciato a “tradire il Concilio”.

Giornalisti e storici hanno naturalmente il diritto e il dovere di esaminare e riesaminare con distacco critico eventi e decisioni. Non solo: proprio il Concilio ha insegnato che i cristiani non devono ignorare o disprezzare, ma semmai tenere in debito conto i risultati che scienza e ricerca, nella loro autonomia, raggiungono e periodicamente aggiornano; il che vale, evidentemente, anche per la storia della Chiesa. Ma il coinvolgimento personale e comunitario che ci rende al tempo stesso osservatori e protagonisti, e anche la mancanza di un quadro completo, rendono inevitabile una certa parzialità e provvisorietà di analisi, specialmente per gli eventi recenti. Si rischia cosí di concentrarsi –per usare un paragone proposto da La Pira– sul fragore delle onde che si rompono in superficie senza cogliere le correnti profonde degli oceani, le sole capaci di muovere immense masse d'acqua.

Molti anni fa mio padre, a un convegno dell'Azione Cattolica, disse: "Crediamo che dei cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell'obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, Vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa". E in un'altra occasione: "amiamo il Papa non perché si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro". Gigantesche svolte –piú precisamente conversioni– nella Chiesa, sono nate dalla fede nello Spirito Santo, dall'amore reciproco fra pastore e gregge, dall'obbedienza responsabile (piú preziosa quando costa fatica). Forse è inevitabile che fede, amore e obbedienza risultino incomprensibili a chi guarda alle vicende della Chiesa da fuori, come lo spettatore di una grande partita a scacchi. Forse è inevitabile anche che all'interno della Chiesa queste virtú non siano equamente distribuite: c'è sempre chi riesce ad amare e ubbidire solo quando c'è simpatia personale e perfetta concordanza di vedute. Ma riconoscerle e ritrovarle, a distanza di molti decenni, nell'Azione Cattolica di oggi, fa bene al cuore. E fa ben sperare per la Chiesa italiana, che, per citare Rahner, “cerca anche nel proprio seno con fatica, a tastoni e tra tante tribolazioni intime, la via verso il futuro”.