Giovanni Bachelet,
incontro
“La costruzione del Partito Democratico”, Hotel Radisson, Roma 4 luglio
2006
Un passo
della Mishnah dice che i fondamenti della società sono verità,
pace e giustizia, ma le tre cose sono in realtà una sola: la giustizia.
Infatti
dalla giustizia, che poggia sulla verità, segue la pace. Simile è la
definizione che apre l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII
(1963): la
pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia,
sull’amore e
sulla libertà. L’aggiunta della libertà a me pare molto significativa.
Anche se
i seguenti quarant’anni hanno ahimé dimostrato quanto sia dura a
morire, al
riguardo, la diffidenza della mia Chiesa Cattolica (durata del resto
molti
secoli), l’aggiunta della libertà fra i principi fondanti di una
società
pacifica, confermata dal Concilio Vaticano II, ha il pregio di
escludere ogni
interpretazione totalitaria degli altri tre fondamenti (verità,
giustizia e
amore): in sé ottimi, ma, come purtroppo dimostra la storia,
utilizzabili, con
maggiori o minori acrobazie, perfino a giustificazione di un Lager
nazista, di
un Gulag comunista o di un tribunale della Santa Inquisizione. [In
questo
stesso senso, se mai si farà un Partito Democratico, mi piacerebbe che
avesse
una Carta dei Principi, non dei Valori: la parola Principi, spiegava di
recente
Zagrebelsky, implica con maggiore chiarezza che, prima ancora che uno
scopo e
un programma, essi devono rappresentare lo stile della nostra azione.]
Naturalmente
anche della libertà si può fare abuso. E perfino un risultato
della buona politica –la crescita del benessere fino alla cosiddetta
società
dei due terzi, come Scoppola ha già ricordato– può avere effetti
perversi. Ci
ripensavo rileggendo uno studio Eurisko-Istituto Cattaneo del 2002,
secondo il
quale molti giovani stavano sviluppando un “ethos dell'illegalità” e
crescevano
“senza virtù civili”:
La percezione del bene comune, del valore della partecipazione, dei fondamenti costituzionali del Paese appare drammaticamente distorta. Sembra stia rapidamente prendendo piede un ethos “consuetudinario e piuttosto incivile, che potremmo anche definire ‘immoralità’ […] orientato alla diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità, alla slealtà e al cinismo verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo dell’interesse personale sulla solidarietà e sulla disponibilità a fare sacrifici per il Paese”, come ha scritto recentemente il presidente dell’Eurisko Gabriele Calvi descrivendo gli studenti italiani “senza virtù civili”. Gli studenti paiono vittime di una pesante omogeneità culturale, nella quale svetta il primato del particulare sull’interesse collettivo e la forte criticità verso gli emblemi nazionali e gli assetti istituzionali, criticità che tende ad aumentare nelle regioni favorite a livello socio-economico ma che gradualmente tende ad uniformarsi anch’essa “al ribasso”, come scrive nella suddetta ricerca il Cartocci, in una unità nazionale che sembra cementarsi nella sfiducia e nella diffidenza verso gli istituti democratici dello Stato.
Una
simile mutazione antropologica ha radici lontane ma pare, purtroppo,
ancora lontana da un superamento: l’impressione è di trovarsi in mezzo
al
guado, sia dal punto di vista locale –aggravato dal fenomeno
Berlusconi, come
suggerisce il Caimano– che da quello mondiale (o globale che dir si
voglia).
Forse, quando si placheranno le trombe clericali, riusciremo di nuovo a
discutere fra cittadini di diverse fedi e opinioni sul rapporto fra
etica
soggettiva e intersoggettiva, intorno a quel “nucleo morale minimo”
senza il
quale, diceva il vecchio Jacques Maritain, nessuna democrazia può
sopravvivere.
Ma qualcuno aveva già intuito questa mutazione incombente quasi
trent’anni fa:
...devo
riconoscere che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel
normale
meccanismo della vita politica italiana…
...c'è
la crisi dell'ordine democratico, la crisi latente con alcune punte
acute. Non
guardate soltanto, amici, alle punte acute per quanto siano
estremamente
pungenti... Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del
rifiuto
dell'autorità, della deformazione della libertà, che non sappia
accettare né
vincoli né solidarietà.
Sono frasi estratte dall’ultimo discorso di Aldo Moro ai
gruppi parlamentari DC, il 28 febbraio 1978. Dio sa se Moro non ha
dovuto, di
lí a poco, provare sulla propria pelle quanto fossero acute le punte
del
terrorismo; eppure aveva la capacità di guardare al di là della pur
terribile
contingenza di quegli anni, e cogliere cosí linee di tendenza, pericoli
e
obbiettivi di lungo periodo per la politica e per la società.
Moro
muore e con lui muore un grande disegno di rinnovamento della politica
italiana. Nella dozzina di anni che seguono, durante i quali crolla il
muro di
Berlino e l’Italia da paese di emigranti diventa terra d’immigrazione,
i
partiti di governo, anziché rilanciare la partecipazione democratica
dei
cittadini, cercano di mantenere il consenso tramite la saldatura
progressiva
fra potere politico e televisioni e l’escalation del clientelismo e
della
corruzione (annunciata come “fine dell’ipocrisia” da uno dei leader
dell’epoca,
mentre un altro dichiarava finemente che la politica è “sangue e
merda”); e
vengono meritatamente travolti dalla catastrofe di Tangentopoli e dai
referendum elettorali. Questi ultimi nascono sull’onda di un grande
movimento
civico, rappresentano una nuova speranza di rinnovamento della politica
e del
costume, e, benché i partiti sterilizzino il maggioritario con una
legge
elettorale che riduce anziché aumentare il potere dei cittadini e
complica
anziché semplificare la frammentazione partitica, parte comunque un
nuovo
bipolarismo che sconvolge la geografia politica del Paese, ben al di là
delle
aspettative di molti dei promotori. Dopo i primi nuovi sindaci arriva
Berlusconi.
E dopo Berlusconi, arrivano Prodi e l’Ulivo.
In dieci
anni, quante speranze e quanti successi. Abbiamo vinto nel 1996,
siamo entrati nell’Euro e abbiamo fatto molte cose buone governando il
Paese e
molte amministrazioni locali. E adesso abbiamo vinto di nuovo tutte le
elezioni
e abbiamo scongiurato con uno straordinario referendum il rischio dello
stravolgimento della nostra Costituzione. Ma oltre alle cose buone,
quante
delusioni e quante involuzioni. La sonora sconfitta del 2001, ma non
solo. Ben
prima, il “tutti a casa” del 1996, quando i capi dei due principali
partiti ci
hanno detto che non eravamo in America e l’Ulivo era stato solo un
cartello
elettorale. Discussioni sul centrosinistra col trattino o meno e altre
scelte
incomprensibili per persone di media intelligenza, come quella di non
regolamentare le televisioni o il conflitto d’interessi (che erano nel
programma) o rifare la Costituzione con Berlusconi (che non era nel
programma).
Anche cinque anni di opposizione durante i quali i partiti ci hanno due
o tre
volte illuso con aperture alla società civile, fusioni, liste comuni
–ricordate
la solenne firma del patto federativo in un teatro romano prima delle
regionali
del 2005, e quel che è successo subito dopo?– col bel risultato di far
disamorare e tornare a casa gran parte di quella opposizione civile che
nel
2002 si era messa in movimento a fianco dell’opposizione parlamentare.
Scoppola
ci ha invitato a non recriminare sulle occasioni perdute. Ma quale
etica della politica è possibile, se rinunciamo a giudicare decisioni
d’importanza strategica, come lavorare sul serio o per finta a un nuovo
processo politico unitario, astenersi o votare contro l’articolo 1
della
riforma costituzionale di Berlusconi e Bossi, far intendere alla
vigilia delle
elezioni del presidente della Repubblica che su tutto si può trattare,
perfino
su Costituzione e Magistratura? E come fare a non recriminare, se il
nocciolo
duro di comando del centrosinistra è, con rare e non so quanto incisive
new
entries,
sempre lo stesso da dieci anni a questa parte? Certo, negli anni pari
erano
alcuni ad accelerare e altri a frenare, mentre negli anni dispari i
ruoli si
scambiavano; quando poi si profilava, per motivata disperazione, la
possibilità
di una lista Prodi, tutti strillavano, e lui alla fine rinunciava; e
cosí oggi
si gode i suoi 103 al Governo. A proposito: mi sono chiesto quanto sia
decisivo
il problema dell’appartenenza al PSE dopo aver scoperto che nella
recente
suddivisione dei ministeri Giuliano Amato, che ne è stato
vicepresidente, è
stato catalogato “area Prodi” anziché “DS”. E quando recriminare, se
non ora,
ora che abbiamo votato e vinto in tre tornate differenti e non voteremo
piú per
un paio d’anni, ora che i nostri maggiori partiti sembrano di nuovo nel
mood ulivista,
oggi col nuovo
nome di Partito Democratico? Certo, abbiamo vinto, e abbiamo vinto
anche per
merito dei nostri partiti. Parafrasando una frase di Helmut Schmidt
sugli
americani, i nostri partiti fanno molte cose che non ci piacciono, ma
sono gli
unici partiti che abbiamo. Non solo. L’esperienza ha dato un duro colpo
alla
presunta superiorità morale della società civile. I (pochi) entrati in
Parlamento sull’onda del primo Ulivo o di qualche grande fenomeno
civico locale
non si sono, tranne rare eccezioni, dimostrati migliori dei
professionisti
della politica: né come efficacia parlamentare, né come dialogo con gli
elettori, né come capacità di farsi da parte dopo un paio di
legislature. Anche
loro hanno sistematicamente confidato, come il resto dell’establishment
parlamentare, nell’unzione dall’alto piú che in una propria vigorosa
azione sul
territorio. Col notevole risultato, per esempio, che alcuni sono
riusciti a
ritrovarsi in un batter d’occhio minoranza nel partito che essi stessi
avevano
inventato; o altri hanno cambiato partito pur di essere ricandidati per
la
terza volta consecutiva. Dunque, in assenza di un vero processo
politico
unitario e innovativo e di elezioni primarie, le poche candidature
nuove,
anch’esse cooptate e non selezionate col voto degli elettori, vengono
rapidamente risucchiate nella vecchia politica, senza vantaggio per
nessuno.
Questo
quadro desolante mi farebbe concludere che anche stavolta si fa per
scherzo: per motivi imperscrutabili, nell’ennesimo gioco delle parti,
alcuni
affondatori stavolta fanno i fondatori del Partito Democratico, e
viceversa. O
forse non imperscrutabili, solo inconfessabili: mosse dei due grandi
partiti
finalizzate a qualche guadagno tattico, schermaglie inconcludenti per
dare,
magari, un contentino a Prodi. Con la serena certezza che l’esasperata
reazione
identitaria dei partiti piú piccoli, e magari anche di qualche loro
componente
interna, vanificherà il tutto, e si continuerà come sempre. O forse
basterà
lasciare la legge elettorale com’è, e il gioco sarà fatto. Con tanti
saluti ai
cittadini, anche stavolta contenti e gabbati dall’illusione di trovare
un
partito che, anziché fare da tappo fra loro e le istituzioni, consenta
loro di
“concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale”, come
dice l’articolo 49 della Costituzione.
Per
questo,
quando Gitti mi ha invitato (a proposito, grazie), ero incerto se
accettare. Ho
accettato perché le amare parole che mi venivano alle labbra, “un
contentino a
Prodi”, mi hanno ricordato un’altra mia recente previsione sbagliata:
quella
sulle Primarie dell’anno scorso. Erano sbagliate anche le previsioni
dei
partiti: quasi quattro milioni anziché quasi uno è una bella
differenza. Niente
velleitarismi: senza i partiti non si sarebbero potute fare. Ma per
ogni
iscritto ai partiti ne sono stati coinvolti altri tre; e tutti hanno
pagato,
pur di votare. Quando i partiti si aprono alla partecipazione dei
cittadini, i
risultati sono inimmaginabili. Una simile esperienza abbiamo avuto nel
comitato
del referendum costituzionale, dove, dalla raccolta delle firme alla
recente
campagna elettorale, associazioni e movimenti della società civile e
partiti
hanno lavorato fianco a fianco. Anche in questo caso il risultato è
stato
straordinario. Malgrado tante delusioni, cittadini ed elettori sembrano
sempre
pronti a riemergere tumultuosamente, come un fiume carsico, quando
viene
offerta un’opportunità di partecipare. E quando lo fanno le cose vanno
bene per
tutti. La ricetta sarebbe perciò abbastanza ovvia: chiamare di nuovo a
raccolta
il popolo delle primarie nel primo anniversario, come suggerisce Paolo
Prodi
nel prossimo numero di MicroMega, per eleggere, per esempio, il
comitato
ordinatore del nuovo Partito; e magari, aggiungo io, per chiedere
contestualmente
a loro, ai quattro milioni, oltre che ai segretari dei partiti piccoli
e grandi
di cui sono certamente elettori, se questo processo deve andare avanti.
In fondo,
perché non sperare di nuovo? Diamo un’altra possibilità, come il
contadino del Vangelo: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e
venne a
cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son
tre anni
che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo.
Perché
deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora
quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo
se
porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». (Lc. 13, 6-9)
Forse anche
stavolta finiremo come Charlie Brown dopo la sua lunga rincorsa, quando
Lucy,
come sempre, gli toglie il pallone al momento del calcio. Chi toglierà
il
pallone stavolta? D’Alema o Mussi, Veltroni o Cofferati? I Comunisti
Italiani o
i Rifondaroli? Verdi e radicali, o Marini e Rutelli? O a togliere il
pallone
saranno, alla fine, proprio Prodi e i prodiani? Chissà. Magari sarà
invece la
volta che riusciamo a dare davvero il calcio al pallone. L’etica della
politica, ci ha insegnato il presidente Scalfaro nella manifestazione
conclusiva del referendum, è nel buttarsi in una battaglia in cui si
crede per
il bene del Paese quando l’esito è incerto, convinti che il proprio
contributo
potrà essere decisivo per la vittoria. Anche se perdessimo, mi ha detto
un’altra volta Paolo Sylos Labini, avremo sempre la soddisfazione di
poterci
ancora guardare allo specchio la mattina, quando ci facciamo la barba.
Sono
questi i motivi che inducono, ancora una volta, a impegnarsi e
sperare.