Giovanni Bachelet, 9 febbraio
2005
Sala Lauree, Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza
Ho accettato volentieri l'invito
della FUCI e dei giovani di Azione Cattolica a condividere qualche ricordo di
mio padre. E ringrazio la Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza che ci
permette di farlo qui, dove papà è morto venticinque anni fa, alla fine di una
lezione. Nel 1977-78, quando cominciavo a lavorare alla mia tesi di Laurea in
Fisica, passavo qualche volta a salutarlo. Una volta lo raggiunsi sulla porta
dell'aula dove stava per cominciare la sua lezione di Diritto Pubblico
dell'Economia. Dentro c'era Moro che aveva appena finito la lezione di Diritto
Penale e s'intratteneva con gli ultimi studenti. Fuori della porta papà
aspettava, chiacchierando col maresciallo Leonardi. Con papà non ne ho mai
parlato (né ci fu molto tempo per farlo, perché dopo la laurea, nel 1979, andai
a lavorare negli Stati Uniti); ma ogni tanto mi domando se il fatto di aver
conosciuto personalmente il capo dei cinque agenti sterminati a via Fani –
giovane, alto, bello, biondo – abbia avuto un peso nella decisione di rifiutare
la scorta, proposta dal Ministero a lui e molti altri dopo i terribili giorni
del 1978.
Questo ricordo è il punto di partenza per una
riflessione sulla prima metà del tema che avete proposto: passione
intellettuale. E' certo lecito definire mio padre un intellettuale. La ricerca
e l'insegnamento universitario non sono lavori manuali. Anche la direzione di
un'associazione nazionale, o, da ultimo, la presidenza dell'organo di
autogoverno dei magistrati, sono responsabilità eminentemente intellettuali. In
simili ruoli non sono sufficienti buona volontà e grandi ideali civili e
cristiani, ma occorrono –lo ricordava Giovanni XXIII nell'enciclica Pacem in
Terris– dosi massicce di conoscenza e competenza. Anche
mio padre era persuaso, e persuadeva noi figli, che dovere primario del
cittadino e del cristiano –naturalmente nei limiti delle possibilità e delle
responsabilità di ciascuno– fosse la formazione, lo studio, l'affinamento delle
capacità, la tensione verso l'eccellenza, l'aggiornamento continuo. Spiegava ad
esempio che un pio incompetente, messo a insegnare o governare, può fare
altrettanti danni di un empio competente. Ma anche un idraulico o un
elettricista incompetenti possono fare danni indimenticabili.
A Fiumicino, quando dopo la laurea partivo per
andare a lavorare in America (e fu il nostro ultimo incontro), papà si era
molto rallegrato che le circostanze mi costringessero finalmente a dedicarmi a
tempo pieno, per qualche anno, alla ricerca. Mi aveva esortato a cogliere
l'occasione di questo "ritiro" per sviluppare al meglio il nocciolo
della mia vocazione professionale –ricerca e studio– che volontariato e
attività culturali, politiche o religiose, per essere credibili, non dovrebbero
mai danneggiare o rendere marginale.
Aveva citato un brano di Gandhi che a lui piaceva
molto: "Se quando si immergono le mani nel catino dell'acqua, se quando si
attizza il fuoco con il soffietto, se quando si allineano interminabili colonne
di numeri al proprio tavolo di contabile, se quando, scottati dal sole, si è
immersi nella melma della risaia, se quando si è in piedi davanti alla fornace
del fonditore non si realizza proprio la stessa vita religiosa che se si fosse
in preghiera in un monastero, il mondo non sarà mai salvo". In altre
parole, benché il suo stesso esempio dimostrasse che la disponibilità a servire
la comunità civile e religiosa poteva e doveva andare al di là dell'attività
strettamente professionale, mio padre voleva dirmi che la cartina al tornasole
piú esigente ed il luogo principale di realizzazione o tradimento degli ideali
che ci guidano è e resta quello del lavoro di tutti i giorni. Che le tasse e il
biglietto dell'autobus vanno pagati prima, e non dopo, aver fatto l'elemosina.
In questo senso
la citazione di Gandhi, che non ho dimenticato, rivela anche che per mio padre
il lavoro intellettuale, lo status di intellettuale, non erano un mito o un
feticcio, ma solo uno dei tanti modi in cui può capitare di servire gli altri.
Gli piaceva un brano del libro "La forza di amare" di Martin Luther
King riscoperto grazie a uno spettacolo musicale di noi figli: "Noi siamo
sfidati da ogni parte a lavorare instancabilmente per raggiungere l'eccellenza
nel nostro lavoro. Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati o
professionali; anche meno sono quelli che si elevano alle altezze del genio
nelle arti e nelle scienze: la maggior parte è chiamata a lavorare nei campi,
nelle fabbriche o sulle strade. Ma nessun lavoro è insignificante. Ogni lavoro
che fa crescere l'umanità ha la sua dignità e la sua importanza, e dovrebbe
essere intrapreso con diligenza e perfezione. Se un uomo è chiamato ad essere
uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo
dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia.
Dovrebbe pulire le strade cosí bene che tutte le legioni del cielo e della
terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è vissuto un grande spazzino, che
faceva bene il suo lavoro."
Non solo: mio padre era ben cosciente dei rischi e
delle tentazioni della professione intellettuale. Un lasciapassare per mestieri
tranquilli e ben retribuiti, da compensare, magari, con compassionevoli
attività di volontariato sociale, politico o religioso al di fuori dell'orario
di lavoro. La compiaciuta appartenenza ad una ristretta cerchia –tanto piú
goduta quanto piú ristretta– di persone preparate, influenti, ben collegate fra
loro: insomma un privilegio da raggiungere con fatica per poter poi vendere a
caro prezzo la propria straordinaria competenza a imprese, leader
politici, potenti di turno. Addirittura il tradimento: gli faceva sempre
impressione ricordare che, su oltre milleduecento professori universitari,
soltanto dodici avevano rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al
fascismo.
Per mio padre chi aveva avuto accesso ai piú alti
gradi dell'istruzione doveva invece trarre, da una invidiabile libertà
professionale e capacità d'indagine, quel distacco e quella forza necessari a
comprendere il presente, non per appiattirsi su di esso, ma per guardarlo con
occhio critico e creativo, immaginando e progettando, anche con qualche
rischio, un futuro meno disumano. Nello stesso senso il papa Paolo VI, alla fine
del suo testamento, aveva scritto "...sul mondo: non si creda di giovargli
assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo,
servendolo."
La profonda
consapevolezza di questa speciale responsabilità dell'intellettuale (che oggi,
in tempi di pensiero unico, sentiamo altrettanto attuale) era peraltro
accompagnata da una decisa estraneità, condita a volte da sornione umorismo,
rispetto alle élite, alle autoproclamate avanguardie
culturali, ai sedicenti profeti, e in genere a quelli che passano il tempo a
dire al prossimo quello che dovrebbe o avrebbe dovuto fare. Aveva un sacro
rispetto per lo studio, per la competenza, per l'autonomia della scienza,
dell'arte e della tecnica. Un rispetto filtrato dalla Francia di Maritain e
Mounier nella FUCI degli anni immediatamente successivi alla guerra grazie a
preti colti e profondamente antifascisti come Montini, Costa e Guano. Un
rispetto che è diventato poi (o sta diventando, o dovrebbe diventare, chissà),
con Giovanni XXIII e col Concilio Vaticano II, patrimonio di tutta la Chiesa
Cattolica. Ma proprio questo rispetto per la cultura e la scienza poneva mio
padre agli antipodi del grillo parlante, del cacciatore di giornalisti e
d'interviste, del tuttologo sempre pronto a dire la sua (cosicché per molti
divenne noto solo venticinque anni fa, all'indomani della diretta televisiva
del suo funerale). Agli antipodi dell'arrogante intellettuale che ritiene, in
virtú della propria sapienza e scienza, o magari della propria santità, di
potersi sottrarre al faticoso compito di conquistare il consenso popolare. Una
volta aveva detto: in democrazia non basta aver ragione, bisogna anche farsela
dare dal 51% degli elettori. Da quegli stessi preti e da alcuni capi fucini
della precedente generazione, come Taviani e Moro, mio padre aveva anche
ereditato, infatti, una fiducia sincera e non strumentale nella democrazia: la
persuasione che gli uomini non si dividessero in masse e intellettuali (o
preti) incaricati di istruirle e irreggimentarle, ma dovessero essere trattati
da persone adulte, aiutati ad esprimere una partecipazione sempre piú informata
e responsabile, nella vita civile e nella chiesa. Che un progressivo
allargamento della cerchia di coloro che discutono e decidono consapevolmente
fosse la migliore garanzia della qualità delle decisioni prese, oltre che il
miglior antidoto contro il rischio dell'involuzione e della barbarie.
Nonostante ciò, un servizio politico-istituzionale
in senso proprio ha impegnato mio padre solo negli ultimi quattro anni. Non era
un uomo per tutte le stagioni, uno di quei consiglieri pronti a trasferirsi
armi e bagagli nelle stanze del nuovo principe; né –questo me l'ha detto una
volta il professor Elia, suo caro amico– aveva mai accettato di fare consulenze
per monetizzare la propria competenza nell'ambito del Diritto Amministrativo.
Non era molto attirato neppure dalla politica e dalla Democrazia Cristiana, pur
seguendone le vicende con grande attenzione e rispetto, ed avendo degli amici
veri, che stimava, impegnati con coraggio e convinzione in quell'esperienza. E'
stato divertente leggere, sulla prima pagina di un suo libro, ricevuto in dono
negli anni '50, l'augurio ad essere "un po' piú democristiano".
Firmato oltretutto da amici che, diversamente da lui, sarebbero transitati,
negli anni '70, nell'orbita del Partito Comunista Italiano. Invece proprio in
quei terribili (per qualcuno formidabili) anni '70 l'unica candidatura, l'unico
impegno politico in senso stretto, mio padre l'accettò dalla Democrazia
Cristiana di Moro e Zaccagnini. E gli costò la vita.
Ma in un certo senso si trattava anche del
coronamento di un'intera vita spesa per un'Italia piú civile, piú democratica,
piú cristiana. L'adeguamento dell'impianto giuridico della Repubblica alla
nuova Costituzione, l'approfondimento dei meccanismi di una efficiente
amministrazione pubblica, snodo cruciale nel rapporto di fiducia fra stato e
cittadini, cosí come gli altri temi della sua ricerca, nascevano dal sogno di
un paese piú civile. L'attuazione del Concilio nell'Azione Cattolica; il suo
ritorno alla missione propria dell'evangelizzazione e della formazione dei
cristiani; il contestuale abbandono di ogni intervento diretto in politica; ma
anche l'avvento della democrazia associativa e l'elezione dei capi, non piú
scelti dalla gerarchia ecclesiastica, hanno rappresentato senza dubbio, oltre
all'ovvio e primario significato religioso, un formidabile contributo alla
crescita democratica e civile dei cattolici e dell'intera società italiana. Le
reti sociali associative e la formazione morale e culturale sono infatti, cosí
credo di aver imparato da lui, ingredienti essenziali per lo sviluppo di una
cittadinanza responsabile e attiva, senza la quale la crescita del benessere
economico, l'abbondanza di informazioni e lo stesso esercizio della sovranità
al momento delle elezioni possono ritorcersi contro la libertà, l'uguaglianza,
la fraternità. Credo che per questa profonda fede nell'enorme importanza della
formazione e dell'insegnamento, mio padre, anche durante la sua vicepresidenza
del Consiglio Superiore della Magistratura, non abbia mai rinunciato alle sue
lezioni, e si sia cosí trovato a concludere il suo cammino terreno proprio con
una lezione, qui, a Scienze Politiche.