Elezioni in USA

Giovanni Bachelet per Segno nel Mondo (rivista dell’Azione Cattolica), novembre 2004





grafico 1992-2004“Forse non dovrei dirlo, ma devo: negli ultimi anni in giro per il mondo quando qualcuno criticava le azioni degli Stati Uniti potevo dire alla gente che il popolo americano non era cosí. Ora non posso piú dirlo, perché la maggioranza ha dimostrato di sostenere le azioni di Bush, e questo mi spezza il cuore.” Sono parole dell’attrice americana Angelina Jolie, che è anche Ambasciatrice di Buona Volontà per l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Anch’io, che nel mio studio ho le foto di Kennedy e Martin Luther King e dall’11 settembre 2001 giro con un ciondolo a stelle e strisce, mi sento come Angelina Jolie: come un innamorato deluso. Ma i numeri sono numeri. Contrariamente a quel che tutti credevano fino a metà della notte elettorale, Bush (New York Times del 4 novembre), “ha trasformato in trionfo la sconfitta nel voto popolare del 2000”. Nel 2000 Bush aveva avuto meno voti (500mila in meno) rispetto a Gore: aveva vinto (conteggi in Florida a parte) perché, col sistema americano, i suoi voti si erano tradotti in un maggior numero di “grandi elettori”. Invece ora, nel 2004, oltre a una considerevole maggioranza di grandi elettori, Bush ha avuto anche quasi quattro milioni di voti in piú rispetto a Kerry. Ha visto aumentare in modo significativo i consensi fra le donne, gli elettori di origine latino-americana, gli anziani, gli abitanti delle grandi città; e in misura molto modesta anche fra cattolici ed ebrei. Sembra che la paura del terrorismo, la guerra in corso e la crociata sui valori familiari abbia premiato Bush. Anche la faccia da funerale di Kerry ed alcune sue esitazioni non devono averlo aiutato. Non sono certo che l’appello di Osama Bin Laden alla vigilia sia stato ininfluente. Mah.

Prima delle elezioni, leggendo nell’email di un caro amico missionario la frase “Bush e Kerry si sbranano per prevalere con un identico programma di arroganza e di morte”, mi ero parecchio incavolato; chissà se adesso l’autore se ne vergogna un po’. Ma sul voto americano nemmeno quest’imprudente equivalenza ha giocato un ruolo: stavolta, diversamente dal 2000, il candidato verde Ralph Nader (vedi grafico) non si è presentato. E dal grafico emerge l’ultimo motivo per non discutere il verdetto americano: il numero dei votanti è molto aumentato rispetto al 2000 (dal 51% al 56% degli aventi diritto, quasi dieci milioni di votanti in piú); e questo, diversamente dalle aspettative di molti commentatori, ha avvantaggiato Bush e non Kerry. Certo il presidente che all’estero ha inaugurato il terribile principio della guerra preventiva, in ciò stigmatizzato anche dalla propria chiesa protestante, e all’interno ha ridotto le tasse ai ricchi, aumentato la disoccupazione e portato in deficit un paese precedentemente in attivo, ha solo il 52% dei voti popolari; il suo sfidante ha pur sempre raccolto il 48% dei consensi. Cosí si consolano i delusi, che si scusano col mondo (il sito web http://www.sorryeverybody.com/ è intasato dal troppo traffico e non si riesce quasi mai a raggiungerlo) e segnalano (foto) la coincidenza fra gli Stati che hanno optato per Bush e quelli che nella guerra civile americana si schierarono in favore della schiavitú. Dovremmo ricordarlo anche noi, che spesso confondiamo il giudizio sui governi con quello sui popoli, che si tratti degli Americani o d’Israele. Salvo poi sottolineare con vigore, quando si parla degli Italiani, la nostra estraneità a Berlusconi.

Sorry everybodyIl distacco non troppo grande, insieme alla saggia regola dei due mandati, non solo esclude una terza presidenza Bush, ma renderà probabile, nel 2008, anche un cambio nelle maggioranze. Dopotutto negli ultimi cinquant’anni ci sono stati cinque presidenti americani democratici, di cui solo uno, Kennedy, ha entusiasmato il mondo e trasformato in modo irreversibile i rapporti sociali interni, schierandosi a favore dei diritti dei neri. Mentre ci sono stati ben otto presidenti repubblicani, che, fra la Guerra Fredda e l’attentato alle Torri Gemelle, hanno dato inizio a quattro o cinque guerre. I primi cinquant’anni del Novecento sono stati invece dominati dai Democratici (sette a sei), e in particolare dalla straordinaria figura di Franklin Delano Roosevelt. Non è detto che i prossimi cinquant’anni non ci riservino sorprese positive. Non credo al divorzio fra capitalismo e democrazia, temuto da Carlo De Benedetti. Non credo neppure a quello che mi ha detto un antico comunista: noi abbiamo capito già con Enrico Berlinguer che i Russi avevano perso la spinta propulsiva, quanto vi manca per capire che anche gli Americani non credono affatto alla democrazia, ma solo ai propri interessi imperiali? Io credo ancora, invece, nella democrazia in generale e anche in quella americana. E quindi nel ricambio che ci sarà fra quattro anni.

presidenti USA 1956-2004Nell’immediato però, sotto Bush, quali aspetti buoni e quali speranze possiamo cercare di intravedere? Personalmente, avendo assistito negli Stati Uniti alle campagne elettorali di Reagan, che anche lui tuonava contro l’aborto e in favore della famiglia (essendo lui stesso, peraltro, divorziato e risposato), ma poi in otto anni non ha fatto niente in proposito, non riesco a capire, a parte ogni questione di merito, l’ottimismo di chi anche stavolta ci ha creduto. Anche la sostituzione della “colomba” Colin Powell con il “falco” Condoleeza Rice alla Segreteria di Stato non sembra preludere alla svolta multilaterale, prevista da molti commentatori anche in caso di riconferma di Bush. Ma siccome anche la guerra in Vietnam l’ha (ingloriosamente) conclusa Nixon, che era repubblicano, spero di sbagliarmi. Insomma sembrano poche le speranze per i prossimi quattro anni di Bush. Forse una: che l’Europa, poco dopo aver firmato il suo (brutto) Trattato Costituzionale, riceva da queste elezioni americane una salutare scossa e parli finalmente con una voce unica in politica estera, alle Nazioni Unite, alla NATO. Abbiamo avuto tanto dagli Americani. Forse è venuto anche per noi il tempo di dare un contributo originale ed efficace alla pace e all’equilibrio del mondo, aiutando gli Americani, da amici, a ritrovare il meglio della propria tradizione democratica. Se questo non è un sogno; se anzi, come sostiene Jeremy Rifkin nel suo ultimo libro, il sogno europeo sta già subentrando al sogno americano, allora forse gli scolari, fra vent’anni, verranno interrogati non su Bush e Kerry, ma su Prodi e Barroso.