Bachelet martire laico

Anniversari. Il figlio del magistrato ucciso dalle Br nel febbraio 1980 parla di suo padre e dell'Italia di ieri e di oggi
«Ci ha insegnato che la centralità di Gesù dà valore all'impegno politico. L'amnistia per i terroristi? Non ha senso, non fu una guerra civile.»

intervista di Paola Springhetti a Giovanni B. Bachelet in Avvenire,prima pagina - domenica 30 Gennaio 2000

 A mezzogiorno del 12 febbraio di vent'anni fa, le Brigate Rosse uccidevano Vittorio Bachelet, professore di diritto che seguiva davvero i suoi studenti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura che si era opposto all'adozione di leggi speciali contro il terrorismo, ex presidente dell'Azione Cattolica che aveva guidato nei difficili anni della «scelta religiosa»… A vent'anni di distanza quel «martirio laico», come lo definirà il cardinal Martini, è ancora difficile da accettare, anche se, purtroppo, comprensibile. «Già allora mi ero dato una ragione e non ne ho trovata poi una migliore», spiega infatti il figlio Giovanni Bachelet, fisico dell'Università la Sapienza di Roma, quattro figli e una grande passione civile a carico.

«In quegli anni chiunque, facendo il giornalista, o il poliziotto, o il giudice o il politico, si schierasse con chiarezza a favore dello Stato democratico, rischiava la pelle e aveva una probabilità non trascurabile di rimetterci la vita. Certo, si sperava che non succedesse, ma chi era parente di un membro del Consiglio superiore della magistratura sapeva benissimo che poteva succedere».

Tra di voi, in famiglia, avevate mai parlato di questo pericolo?

«Come era possibile non farlo se ogni settimana o due veniva ammazzato qualcuno, e spesso era un giudice? Inoltre dopo l'uccisione di Moro a mio padre era stata proposta la scorta: non l'ha voluta, ma comunque si è parlato del problema. Ci scherzavamo sopra, anche. Avevo uno zio imprenditore a Milano e, visto che anche gli imprenditori erano potenziali vittime, mio padre gli propose scherzando di procurarsi, come gli antichi cavalieri, degli schinieri per proteggersi da possibili gambizzazioni».

Ci sono in Italia molti istituti superiori, strade, centri studi dedicati a suo padre. È contento di come viene ricordato?

«Capita che arrivi qualche notiziario con scritti dedicati a Vittorio Bachelet che hanno toni da crociata anni Cinquanta tali da farmi chiedere se mio padre avrebbe sottoscritto. Però, alla fine, tutto si fa per affetto, e non c'è il copyright su mio padre. Mi fa piacere che lo ricordino in tanti, e non solo per gli aspetti più vistosi. A volte mi capita di fare una prenotazione per l'aereo, per esempio, o comunque di dare il mio nome a qualcuno, e scoprire che c'è chi ricorda personalmente quell'evento, quel giorno. Insomma è rimasto un ricordo non solo nelle lapidi, ma anche nei cuori».

Di Vittorio Bachelet è stato detto che era soprattutto un uomo che seminava, instancabilmente. Quali sono i semi che hanno meglio germogliato?

«È difficile dirlo perché si è impegnato in tanti ambiti diversi. Per me è più facile parlare di quello familiare: ci ha trasmesso la centralità di Gesù e dell'Eucaristia nella vita e quindi anche nell'organizzazione della famiglia. Molti pensano che proprio per questo perdano importanza la cultura, l'impegno politico o professionale; anche molti nuovi movimenti hanno adottato questo schema: siccome quello che conta è Gesù Cristo, il resto non ha importanza. Invece, per mio padre, proprio perché Gesù è centrale, tutto il resto acquista un valore».

È vero che Bachelet si è impegnato in ambiti diversi, però non ha fatto politica in senso stretto, se non per una breve parentesi nel consiglio comunale di Roma.

«In realtà si era impegnato anche per la campagna elettorale del '48. Per il resto si interessava alla politica sia come cittadino attento alle sorti del suo paese, sia come tecnico del diritto, perché la politica è anche il luogo dove si fanno le leggi. Ma diversamente da molti cristiani di quegli anni non credeva che la politica risolvesse tutto o che il fatto di avere in mano il governo fosse fonte sicura di successo e di miglioramento in tutti i campi dell'agire umano. Vedeva chiaramente i limiti della politica e nello stesso tempo il nesso tra politica e amministrazione (la politica non è solo fare grandi progetti, ma soprattutto buona amministrazione). Aveva l'impressione che in quegli anni l'impegno politico per i cristiani fosse più una necessità che non un vantaggio per la Chiesa. Anzi, vedeva anche i pericoli di questa situazione».

Gli anni del terrorismo sono definitivamente chiusi?

«Sì, anche se per chi ci ha rimesso una persona cara, o per chi, avendo sbagliato, ha trascorso buona parte della vita in prigione, restano ferite che non si possono rimarginare. Però non è continuando a cincischiare su chi sarà stato o chi non sarà stato che le cose migliorano. Una cosa positiva è che il fenomeno non c'è più, nonostante qualche episodio recente che però va letto diversamente. Il terrorismo voleva scardinare e distruggere la democrazia in Italia, per resistere sono dovute morire molte persone innocenti, ma il risultato è che viviamo ancora in uno stato democratico. Di quel tentativo non è rimasto niente, se non la rabbia di chi ci si è rovinato l'esistenza e il dolore dei parenti e degli amici delle vittime».

Anche con il caso Sofri stiamo cincischiando?

«Sofri, come Andreotti o Berlusconi, sono persone che hanno già la notevole fortuna di essere talmente note che, se hanno diritto a una garanzia in più, gli viene accordata al volo. Quindi sono stati trattati infinitamente meglio di tantissimi poveri cristi che subiscono il loro processo con l'avvocato d'ufficio e si prendono condanne senza che nessuno si commuova. Spero che se qualcuno è innocente lo riesca a dimostrare, però vale anche per loro quello che è scritto in tutti tribunali: la legge è uguale per tutti. Dobbiamo affidarci alla giustizia che abbiamo, e, per le regole che oggi ci sono, come dobbiamo dire che Andreotti è innocente, dobbiamo dire che Sofri è colpevole. Se altri gradi di giudizio diranno il contrario, ben vengano. Quello che gioca a favore di Sofri, come ha giocato a favore di Andreotti, è l'atteggiamento che ha mantenuto di fronte ai processi e il fatto che non sia fuggito. Per la stessa ragione per cui un Craxi che va ad Hammamet dà l'impressione che non abbia argomenti per difendersi, l'atteggiamento socratico di Sofri per lo meno attira simpatia e fa venire il dubbio che sia davvero innocente».

Periodicamente qualcuno propone l'amnistia per i reati di terrorismo o qualche altro gesto che dovrebbe servire a chiudere definitivamente con quell'esperienza.

«Non esistono elementi che giustifichino un'amnistia. Non è stata una guerra civile, con reati commessi da entrambe le parti. Non è stato neanche un fenomeno di massa né si può dire che non fosse perseguibile. Oltretutto ormai un provvedimento di questo genere riguarderebbe un numero di persone comprese tra 10 e 50: tutti gli altri hanno scontato le loro pene e sono usciti, inclusi alcuni di quelli che hanno ucciso il mio papà. E io ne sono contento: il fatto che un Paese civile stabilisca che uno abbia espiato abbastanza o che possa finire di pagare in forme diverse, magari lavorando fuori, è un'ulteriore vittoria di coloro che sono morti per difendere lo Stato democratico».