Giovanni
Bachelet, Convegno CEI Pastorale
Familiare, Grosseto 24/4/2005
"Quando torni a
casa picchia moglie e figli: tu non sai il motivo, ma
loro lo sanno." Questo famoso proverbio cinese provoca in genere grande
ilarità nelle nostre famiglie, probabilmente perché, condensando in
poche
parole il quadro tragicomico di una famiglia dominata da un
padre-padrone e da
rapporti di sfiducia totale e di violenza, testimonia una mentalità,
un'epoca e
una dinamica di gruppo lontane anni luce dall'esperienza quotidiana.
Eppure la
famiglia resta, per i cristiani e per tutti uno snodo cruciale e
un banco di prova esigente della vita comune. Alcune ragioni sono
legate al
nostro tempo: la famiglia è immersa in una transizione epocale,
profeticamente
intuita e coraggiosamente affrontata dal Concilio trent'anni fa, ma di
lunga
durata e tutt'altro che conclusa. I ruoli tradizionali sono stati
sconvolti, e
si fa strada, almeno come linea di tendenza (positiva), la parità di
responsabilità economiche, organizzative ed educative fra marito e
moglie; i
nuovi ruoli, in via di definizione, sono occasione di grazia e di
fatica, e
richiedono molta flessibilità.
La famiglia è
inoltre priva dei supporti sociali e culturali che fino a
20-30 anni fa parevano rafforzarne dall'esterno la stabilità,
valorizzando nel
sentire comune il sacrificio della carriera (o di altri lati della
vita) in
funzione dei figli. Magari anche in passato, piú che promuovere un
modello
cristiano di fedeltà e corresponsabilità coniugale, questi supporti
alla
famiglia incoraggiavano la capacità di pazientare e chiudere un occhio
del
"coniuge debole", in un mercato del lavoro commisurato alle esigenze
del "coniuge forte". Ma i supporti c'erano, e anche una famiglia
veramente cristiana poteva trarne qualche sostegno.
Infine, mentre
un tempo si poteva (ragionevolmente?) assumere che scuola,
parrocchia, vita associativa e sportiva dessero ai figli un messaggio
sostanzialmente coerente sugli aspetti piú importanti della vita, oggi
viviamo
il progetto educativo familiare piú o meno senza rete.
Vivere gli
aspetti familiari della grande transizione con competenza,
allegria e coraggio, dando un contributo cristiano alla sua evoluzione
anziché
esserne travolti, richiede un supplemento d'intelligenza, di amore, di
creatività e di sicurezza di sé. Alla base di tutto ci devono essere,
nella
coppia, grande fede e grande affiatamento umano. Entrambi vanno
coltivati e
rinnovati con cura anche attraverso spazi e momenti propri, altrimenti
va tutto
a ramengo –altro che pensare solo ai figli! ricordava anni fa il nostro
vescovo
a un incontro per fidanzati, sorprendendo non pochi presenti.
Al di là, e
forse ben piú delle specificità del nostro tempo, c'è però un
fatto costitutivo, una sfida comune a tutte le epoche - da Caino e
Abele alle
tragedie greche - e cioè che la famiglia, cellula elementare di ogni
società, è
punto di incontro profondo e radicale delle persone, nel quale le
diverse
inclinazioni, necessità e aspirazioni sono destinate o a plasmarsi,
compenetrarsi e riformularsi nell'amore, o a scontrarsi, soffocarsi,
ignorarsi
a vicenda.
Qui si toccano
con mano espressioni come "dare la vita" o
"morire per gli altri", insieme alla gioia profonda promessa dal
Signore a chi lo segue sulla Croce; o si può, al contrario, sprofondare
nell'indifferenza e nell'inferno –l'inferno sono gli altri, affermava
drammaticamente J.P. Sartre– se è vero (lo sosteneva un famoso
giornalista
qualche anno fa) che chiunque, almeno una volta nella vita, ha
segretamente
desiderato di strozzare il suo coniuge, suo padre o suo figlio.
Nella sua
apparente ordinarietà la vita familiare è perciò, per i
cristiani, una difficile e permanente palestra di amore,
riconciliazione e
perdono, un’inesorabile cartina al tornasole della gioia e
dell’autenticità
evangelica, molto piú significativa e impegnativa dei grandi gesti "una
tantum", che invece fanno colpo e vanno in prima pagina. Ma le reazioni
e
i commenti a questi ultimi sono comunque rivelatori di una cultura
sulla quale,
a causa della mia vicenda familiare, mi permetto una digressione.
Ogni volta che sui giornali si
parla di perdono –che si tratti di ex
gerarchi nazisti, di terroristi o di mafiosi, di tangentisti o di
lanciatori di
sassi dal cavalcavia– mi sorprendo a scoprire che in un paese di antica
tradizione cristiana alcuni basilari insegnamenti evangelici, divulgati
dai
catechismi di ogni epoca, siano trattati alla stregua dei precetti di
una setta
sconosciuta.
Gesú ci ha detto ad esempio che,
se nostro fratello ha qualcosa contro
di noi, dobbiamo noi, prima di portare l'offerta all'altare, andare a
cercare
il fratello e riconciliarci con lui; ma il fatto che un cristiano
cerchi di
offrire per primo la mano a chi gli ha fatto un torto grave continua ad
apparire,
nel nostro paese dalle radici cosí cristiane, come un'eroica
stravaganza.
Anche le poche comparse che, nel
circo mediatico, apprezzano il perdono,
ragionano, per lo piú, da non cristiani: appena aprono bocca si
capische che
confondono perdono e indifferenza (o addirittura approvazione e
giustificazione) di fronte al male. Come se Gesú avesse detto
all'adultera
"Nessuno ti ha condannata? Neanch'io ti condanno: come hai visto, chi
piú
chi meno, peccano tutti. Va' e pecca ancora."
Oppure fanno
allegramente coincidere riconciliazione cristiana e provvedimenti di
amnistia o
assoluzioni e indulgenze plenarie dei principali reati di terrorismo,
mafia,
tangenti, al grido di “volemose bbene”. Con tutta evidenza ignorano le
utili
riflessioni di Tommaso D'Aquino, Dante Alighieri, Tommaso Moro, Cesare
Beccaria
(o in anni piú recenti Jacques Maritain, i Costituenti e i Padri
Conciliari)
sull'organizzazione della città terrena e sulla funzione, purtroppo
ineliminabile, del diritto, della pena e in generale di una giustizia,
pur
imperfetta, in questo mondo.
Ma
tornando al nostro tema, la vita familiare è piú che sufficiente a far
emergere
con chiarezza il nesso fra perdono e correzione fraterna, fra amore e
verità,
fra pace e giustizia, che è delicato ma non eludibile dall’avventura
cristiana.
Il
cristiano sa di amare perché Dio per primo lo ha amato, e la prima
lettera di
S. Giovanni gli ricorda che chi non ama suo fratello che vede, non può
amare
Dio che non vede. Quindi anche quando subisce torti, soprusi e
incomprensioni,
il cristiano –appena recita il Padre Nostro– ricorda di avere molti
arretrati e
debiti con Dio e con gli altri, di avere, egli per primo, bisogno del
perdono.
Il proverbio cinese potrebbe quindi essere rovesciato. "Quando torni a
casa, ringrazia e chiedi scusa a tua moglie e ai tuoi figli: loro non
sanno il
motivo, ma tu lo sai." In una comunità piccola e affiatata, se le cose
vanno bene, è sicuramente merito anche degli altri; se qualcosa non va,
è
probabilmente anche colpa nostra. Insomma la certezza dell’amore di Dio
e del
proprio peccato non può che indurre ad un atteggiamento di umiltà e
gratitudine
anziché di giudizio e condanna verso gli altri.
Però chiunque
abbia vissuto in una comunità piccola o grande, in
particolare in una famiglia, sa che le responsabilità, nel bene e nel
male,
sono alla fine strettamente personali; e talvolta, per ragioni
educative, di
rispetto della verità e di equilibrio della comunità, risulta
addirittura
necessario farle emergere con chiarezza. Il perdono non può diventare
un alibi
per l'annacquamento e la confusione delle responsabilità. L'esame di
coscienza,
i bilanci e i progetti personali, di coppia e di famiglia sono un
dovere, non
un optional. Che fare se
nei bilanci qualcosa non quadra?
Don Costa,
assistente dell’Azione Cattolica negli anni del Concilio, diceva
che il Nuovo Testamento in questi casi prevede due vie: perdonare
settanta
volte sette o correggere fraternamente il proprio fratello (prima in
privato,
poi davanti a qualche altro membro della comunità, e infine davanti a
tutta
l'assemblea); ma aggiungeva che la correzione risulta tanto spontanea,
e il
perdono, viceversa, tanto difficile, che ad abbondare sul versante del
perdono
non si sbaglia quasi mai. In quegli stessi anni '60, turbolenti e
fecondi anche
per la vita della Chiesa, mio padre aggiungeva, tratteggiando i
rapporti di
collaborazione fra associazioni cristiane, comunità locali e vescovi,
che le
famiglie in cui si strilla sempre non sono il miglior esempio di
concordia e
collaborazione.
E tuttavia in
ogni comunità, in particolare se piccola e intensa come la
famiglia, pur tenendo conto di queste raccomandazioni, non ci si può
esimere
(come genitori ma anche come coniugi) da qualche verifica a muso duro.
Anzi, è
proprio in un clima generale di tolleranza e di benevolenza che
acquistano
valore le poche occasioni in cui si discute e si corregge una rotta
sbagliata,
le poche cose importanti su cui non si può transigere a fronte delle
tante
opinabili (o irreparabili), sulle quali è giusto essere magnanimi e di
larghe
vedute.
Come
distinguere fra le une e le altre occasioni? Una famosa preghiera,
credo di San Tommaso Moro, diceva: Signore, dammi la forza di cambiare
le cose
che posso cambiare, dammi la forza di accettare le cose che non posso
cambiare,
e dammi l'intelligenza di capire la differenza. Come accennavo parlando
di
intelligenza, la pace, il perdono e la giustizia possono infatti essere
conciliate solo da persone e comunità non solo bene intenzionate –di
buone
intenzioni, si sa, sono lastricate le vie dell'inferno– ma anche
intellettualmente non sprovvedute, competenti dal punto di vista
educativo,
affettivamente mature, sentimentalmente e fisicamente affiatate:
scemenza
superficialità e malesseri latenti fanno a volte piú danno della
cattiveria.
Un mio
confessore, alcuni anni fa, mi suggerí un criterio molto umano, che
non ho piú dimenticato: se un certo giorno raggiungi la certezza di
dover
correggere qualcosa d'importante non nella tua vita (su quella si può e
si deve
intervenire subito), ma in quella di qualcuno dei tuoi familiari,
aspetta altri
dieci giorni. Se dopo dieci giorni te ne ricordi ancora, prendi
l'iniziativa e
parlane con franchezza, pur con tutto l'amore e la responsabilità del
tuo ruolo
di padre o di marito. Se invece te ne sei già scordato, beh, è segno
che non
era cosí importante come ti era sembrato.
E' un criterio
forse semplice e infantile, ma l'ho trovato sempre molto
utile: lasciare accumulare rancori e scontentezze per un malinteso
amore di
pace –la vecchia idea di pazientare, sopportare e chiudere un occhio–
può, in
una cornice di formale concordia, far marcire e deteriorare qualunque
rapporto.
Se questa "politica" poteva avere un senso in un diverso contesto
socio-culturale (e personalmente sono convinto che non lo avesse
neppure
allora), essa pare improponibile oggi. Nella
nostra
postmodernità sempre piú liquida, di cui parla Zygmunt Bauman
nei suoi
libri, dove a legami forti e stabili
sembrano
progressivamente sostituirsi legami sempre meno forti e definitivi,
dove una possibilità
di comunicazione senza precedenti regala rapporti molteplici ed
intensi, non
bastano rassegnazione e routine, ci vogliono entusiasmo e chiarezza
nelle
priorità. Non bastano impegno nei doveri, rispetto o addirittura
sopportazione,
bisogna restare innamorati. Anche una coppia inizialmente
affiatata,
anche una famiglia solidale e cristiana, se lascia accumulare pressioni
interne
ed esterne oltre il livello di guardia, è destinata ad esplodere, come
dice
purtroppo l’esperienza di molti amici e gli oscuri timori che a volte
suscita
anche in noi stessi. Bisogna sempre dirsi tutto. Ma con pazienza, con
misericordia, con un sorriso: anche la tendenza a strillare, protestare
e
segnalare ogni difficoltà, ogni intoppo, ogni insoddisfazione, ogni
batticuore,
ogni dubbio (magari per amore di sincerità e verità) può risultare non
solo
sterile, ma, nel mondo liquido e instabile, esplosiva e fatale.
L'equilibrio
fra perdono e correzione, fra amore e
verità, fra giustizia e pace è una sfida dell’avventura cristiana, in
famiglia
non meno che in politica, o sul posto di lavoro, o nella chiesa: un
equilibrio
difficile e gioioso, fatto di preghiera, di approfondimento biblico, di
sacramenti, ma anche di saggezza umana e di accorto discernimento.