Saluto
tutti i cittadini e le autorità presenti in questa piazza, e
ringrazio Manlio Milani e l’associazione dei familiari dei caduti di
piazza
della Loggia per avermi voluto invitare a questo anniversario.
Milani
mi ha spiegato che l’invito era in nome di un comune, anche se
diverso, destino; mi ha pregato di presentarvi qualche ricordo di mio
padre,
anche lui morto presto, ma in un attentato di altro tipo, venticinque
anni fa.
E’ una generosa tradizione, quella di coinvolgere nella memoria caduti
e
vittime di tutte le battaglie democratiche del nostro Paese. Grazie.
Al
momento dell’invito Milani non sapeva che i miei suoceri abitano a
pochi
passi da casa sua qui a Brescia, né che la professoressa Banzi, una dei
caduti
di questa strage, era professoressa di francese di mia cognata; né che
Cesare
Trebeschi e Franco Salvi erano carissimi amici di mio padre. Franco
Salvi, il
partigiano cristiano, ma anche il politico che –se crediamo al
memoriale– aveva
espresso a Moro terribili dubbi all’indomani della strage di Brescia.
Quando
nel 1976 papà e Franco Salvi passeggiavano su e giú per ore lungo
via Ricciotti, sotto il portone di casa nostra, in un pomeriggio di
sole, non
sapevo di che cosa stessero parlando. Papà me lo disse la sera: Moro mi
vuole
candidare al Consiglio Superiore della Magistratura. E ha mandato
Franco a
dirmelo perché sa che per me Franco si butterebbe nel fuoco, e io per
lui. Che
cosa gli hai detto? Che ci penserò bene. Ci pensò bene, e, anche
incoraggiato
da noi figli, allora entusiasti di Moro e Zaccagnini, disse di sí.
Papà
era talmente poco retorico e cosí tranquillo, che il valore e la
difficoltà di alcune sue decisioni, in alcuni casi le decisioni
stesse, le ho
apprezzate solo dopo, apprendendole dai suoi amici e colleghi
dell'Università,
dell'Azione Cattolica, del Consiglio Superiore della Magistratura. Il
coraggio d'impegnarsi senza risparmio - nel lavoro,
nell'associazionismo, e
alla fine, con una certa riluttanza, in politica e nelle Istituzioni.
Il coraggio,
pur essendo un esperto di diritto amministrativo, di non fare mai
soldi
attraverso consulenze (questo me l'ha spiegato una volta un suo
collega). Il coraggio
di avere a che fare con la magistratura in un tempo in cui ne
ammazzavano
parecchi (per i magistrati la vita non è mai stata facile), e di
rifiutare la
scorta, anche dopo la strage della scorta di Moro nel 1978. Ma tutto
senza
clamori e senza sparate.
Un
ricordo, per capire che tipo era: in quegli anni non si riusciva a
celebrare il primo processo alle Brigate Rosse, perché i cittadini
chiamati a
formare la giuria popolare fornivano via via certificati medici o altri
documenti
per essere esonerati da un incarico che, secondo i minacciosi proclami
dei brigatisti,
sarebbe costato loro la vita. Finalmente qualcuno accettò. Io e papà
guardavamo
insieme la televisione quando uno di questi eroi civili, un cittadino
di
Torino, fu intervistato con la consueta delicatezza e psicologia: "Ma
lei
non ha letto le minacce di morte dei terroristi? non ha paura?" Lui
rispose "La paura ce l'ho, ma me la tengo." Mio padre mi disse allora
(e quante volte ci ho ripensato poi): ecco, questo non è un trombone,
questo è
un vero uomo.
Permettetemi di ricordare insieme a
mio padre, morto
venticinque anni fa, anche Sandro Pertini, del quale ricorre il
quindicesimo
anniversario ed è per me inseparabile dal ricordo degli ultimi anni di
mio
padre, quelli appunto del Consiglio Superiore della Magistratura. Il
“vecchio
rimbambito che scambia i corridoi del Quirinale con le trincee della
Resistenza” e il “culo di pietra” che merita solo un “cuore di piombo”,
come
Pertini e mio padre vennero rispettivamente definiti in altrettanti
comunicati
delle Brigate Rosse, si stimavano e si trovarono bene insieme.
Ricordo quando arrivai trafelato
dall’aeroporto,
dall’America, quel tremendo 13 febbraio del 1980. In certi momenti
stentiamo a
credere a quello che ci è stato detto. Entrando a casa trovai Pertini
seduto
sul divano del nostro salotto, vicino al professor Amaldi, con mia
madre e mia
sorella. Capii ancora una volta che era proprio vero: papà non c’era
piú.
L’anno prima papà si era salvato: sotto il suo ufficio l’ordigno dei
NAR non
era esploso. Ma stavolta era proprio morto.
In quegli stessi anni altri politici
(oggi vivi e vegeti,
spesso ancora sulla breccia) coniavano e diffondevano lo slogan “né con
lo
Stato né con le Brigate Rosse”. Anche allora, infatti, per diversi
motivi, una
parte del bel mondo politico si faceva beffe della legalità e del senso
dello
Stato; e finiva, anche allora, per prendersela coi magistrati,
colpevoli di
teoremi indimostrabili ed artefici di persecuzioni politiche a senso
unico.
Dàlli ai magistrati! Che invece, insieme al sindacato, per negligenza
della
politica, furono l’unico e l’ultimo argine in molte alluvioni che
rischiavano
di travolgere la democrazia. Allora come oggi. Anzi, benché il contesto
sia
molto diverso, sono a volte le stesse persone, gli stessi politici, gli
stessi
avvocati (ieri scapigliati, oggi governativi) a prendersela coi
magistrati.
Pertini invece, magari con una
semplicità che veniva
ridicolizzata in qualche salotto buono, si schierava, senza
circonlocuzioni,
dalla parte della legge: era evidente a tutti che stava dalla parte dei
giudici
e dei carabinieri e non apprezzava l’opera dei ladri e degli assassini.
Questo
dovrebbe essere ovvio per chi si trova al vertice della Repubblica; ma
a quanto
pare non lo era nemmeno allora, se, nel 1985, Pertini si trovò a dover
ricordare al ministro De Michelis, reduce da una stretta di mano in
pubblico
con Oreste Scalzone a Parigi, che lui, Pertini, non avrebbe mai stretto
la mano
a un latitante che, per evitare il carcere, era scappato dall’Italia.
Pertini
era stato esule; per questo gli era impossibile confondere un esule con
un
latitante, come invece capitava e capita ad altri.
Nel ricordare Pertini, papà, gli
eroici sindacalisti e
cittadini democratici caduti qui a piazza della Loggia, c’è un unico,
gravissimo dubbio che mi assale. Se valga per tutti quanto disse con
disprezzo
una rivista di quegli anni: se “il nostro caro Pertini, nella demagogia
dello
Stato assurto a Giovanni XXIII della Repubblica”, quello che anche da
Presidente si paga coi soldi suoi il biglietto dei viaggi privati, non
sia
servito solo “come falsa coscienza, come foglia di fico” di un Paese
irrimediabilmente corrotto e pasticcione. Mi chiedo, in questi momenti
di
sconforto, se sia valsa la pena di vivere, e in alcuni casi di morire,
per un
Paese che guazza sempre nell’imbroglio e nel complotto, e, anziché il
meglio
delle radici cristiane e socialiste, laiche e liberali della Resistenza
e della
Costituente, continua a mettere insieme il peggio del clericalismo, del
post-comunismo e della massoneria, il peggio di Arlecchino e
Pulcinella. Il
peggio del peggio, insomma, magari in nome del realismo, del bene
comune,
perfino del riformismo; magari in modo tale da far sembrare rimbambiti
o
ingenui (a seconda dell’età) quelli che lottano per un’Italia giusta e
pulita,
per un’Italia normale.
Ma scaccio il dubbio e rispondo di no.
Non è stata una
foglia di fico, è stata la fionda di Davide. Lottare, anche in pochi,
quando
sembra impossibile vincere, è in ogni tempo un utile, anzi
insostituibile
servizio alla libertà e alla giustizia, alla verità e alla pace. E’
stata
efficace, anzi decisiva la lotta dei partigiani come Pertini o Franco
Salvi
contro il fascismo. E negli anni tremendi delle bombe, degli attentati
terroristici, dello scandalo Lockheed, della loggia P2, dell’esplosione
della
mafia, sono stati cruciali il servizio di Pertini, Moro o mio padre ai
vertici
della Repubblica, la responsabile eppure implacabile opposizione di
Berlinguer,
il coraggio di magistrati e giornalisti come Walter Tobagi, del quale
ricorre
oggi il venticinquesimo anniversario, la vigilanza democratica di
sindacati e
cittadini, qui a Brescia e in tutta Italia.
I sacrifici richiesti dal coraggio non
sono serviti solo
a salvare l’anima di chi li faceva. Traguardo peraltro non
disprezzabile:
proprio Pertini disse una volta al Papa, in cima a una montagna nevosa,
“sono
ateo ma, se c’è il Paradiso, ci andrò anch’io”. E disse bene, secondo
me.
Questi sacrifici sono serviti anche al
bene di tutti.
Hanno mostrato che, nei momenti difficili, pochi giusti coraggiosi sono
sufficienti a inceppare la macchina del consenso al male, a risvegliare
le
coscienze, a salvare un intero Paese; hanno mostrato che la politica
non è solo
intrallazzo, ma può essere anche, come disse una volta il papa Paolo
VI, la piú
alta forma di amore e di servizio del prossimo; hanno cosí restituito
speranza
e fiducia nella politica, quella vera, ad un’intera generazione che
allora
aveva vent’anni, la mia generazione; e in alcuni di essi, fra cui me,
alimentano ancora, trent’anni dopo, il coraggio e la voglia anzitutto
di
lavorare onestamente, senza pestare i piedi degli altri ma anche senza
piegare
la schiena; alimentano l’amore per la Repubblica e la Costituzione,
anche oggi
vilipese e oggetto di un diverso, ma non meno pesante attacco;
consentono di
pronunciare ancora parole come libertà, giustizia, verità e pace, senza
né
vergognarci quando ci guardiamo allo specchio in bagno (come dice il
professor
Sylos Labini), né sentirci rimbambiti o ingenui.
Sento come un privilegio e una
responsabilità grande
quella di professare questi valori e trasmetterli ai figli, affidando
loro,
insieme alla memoria del nonno Vittorio assassinato a cinquantaquattro
anni,
anche quella di Pertini partigiano e Pertini presidente, anche quella
degli
eroi di Piazza della Loggia, anche quella di tutti i testimoni e i
caduti della
democrazia, da Aldo Moro all’ultimo poliziotto, all’ultimo carabiniere.
Con questo patrimonio di memoria
alcuni dei nostri figli
–non c’è bisogno che siano in molti, anche per il presente ed il futuro
bastano
pochi giusti e coraggiosi– attraverseranno, illuminandolo, il buio che,
nonostante gli sforzi di ottimismo, io temo di vedere all’orizzonte,
ancora per
qualche tempo, in Italia e nel mondo.