Educare alla legalità [Giovanni Bachelet, Chianciano, 18/4/2004]

Un passo della Mishnah dice che i fondamenti della società sono verità, pace e giustizia, ma le tre cose sono in realtà una sola: la giustizia. Infatti dalla giustizia, che poggia sulla verità, segue la pace. Simile, ma piú completa, mi pare la definizione che apre l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII (1963): la pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà.

L’aggiunta della libertà a me pare molto significativa. In un solo colpo spazza via la secolare diffidenza della Chiesa Cattolica al riguardo ed esclude con chiarezza ogni futura interpretazione totalitaria degli altri tre fondamenti (verità, giustizia e amore): in sé ottimi, ma, come purtroppo dimostrano la storia, la storia della filosofia e la storia della propaganda, utilizzabili, con maggiori o minori acrobazie, perfino a giustificazione di un Lager nazista, di un Gulag comunista o di un tribunale della Santa Inquisizione.

Naturalmente anche della libertà si può fare abuso. Leggendo il recente studio Eurisko-Istituto Cattaneo del 2002, secondo il quale molti giovani fra i 15 e 18 anni stanno sviluppando un "ethos dell'illegalità" e stanno crescendo "senza virtù civili", torna infatti alla mente la domanda posta da Emmanuel Mounier nella prima metà del Novecento “a che serve la libertà se mi serve solo a scegliere fra la peste e il colera? E se gli uomini la disprezzano, non è forse perché non sanno che farsene?”, o la frase di Jacques Maritain, che negli stessi anni affermava: “nessuna democrazia può sopravvivere senza un nucleo morale minimo”.

A chi legge le conclusioni di quello studio, che è una delle provocazioni alla base della scuola di formazione per studenti promossa dal MSAC quest’anno, viene proprio da spaventarsi:

La percezione del bene comune, del valore della partecipazione, dei fondamenti costituzionali del Paese appare drammaticamente distorta. Sembra stia rapidamente prendendo piede un ethos consuetudinario e piuttosto incivile, che potremmo anche definire ‘immoralità’ […] orientato alla diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità, alla slealtà e al cinismo verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo dell’interesse personale sulla solidarietà e sulla disponibilità a fare sacrifici per il Paese”, come ha scritto recentemente il presidente dell’Eurisko Gabriele Calvi descrivendo gli studenti italiani “senza virtù civili”. Gli studenti paiono vittime di una pesante omogeneità culturale, nella quale svetta il primato del particulare sull’interesse collettivo e la forte criticità verso gli emblemi nazionale e gli assetti istituzionali, criticità che tende ad aumentare nelle regioni favorite a livello socio-economico ma che gradualmente tende ad uniformarsi anch’essa “al ribasso”, come scrive nella suddetta ricerca il Cartocci, in una unità nazionale che sembra cementarsi nella sfiducia e nella diffidenza verso gli istituti democratici dello Stato.

Ci troviamo, cioè, ben oltre il già triste proverbio riferito da Ignazio Silone “anarchici a vent’anni, conservatori a trenta”: qui pare che fin dall’adolescenza ognuno pensi i fatti suoi.

Per chi ha quasi cinquant’anni ma ha la fortuna di essere ancora in contatto, grazie all’insegnamento universitario, con i ragazzi, questo clima di declino culturale e morale, civile e politico – forse meno grave di quanto suggerisca lo studio appena citato, e comunque ricco di sfide e di opportunità – non è una sorpresa. Al contrario, appare da un lato riconducibile a radici lontane, e dall’altro, purtroppo, ancora lontano da un superamento: in altre parole l’impressione è di trovarsi proprio in mezzo al guado (al guano?), sia dal punto di vista locale che da quello mondiale (o globale che dir si voglia). Le radici qualcuno le aveva colte almeno un quarto di secolo fa:

...devo riconoscere che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana

...c'è la crisi dell'ordine democratico, la crisi latente con alcune punte acute. Non guardate soltanto, amici, alle punte acute per quanto siano estremamente pungenti... Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell'autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né vincoli né solidarietà.

Sono frasi estratte dall’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi parlamentari DC, il 28 febbraio 1978. Dio sa se Moro non ha dovuto, di lí a poco, provare sulla propria pelle quanto fossero acute le punte del terrorismo; eppure aveva la capacità di guardare al di là della pur terribile contingenza di quegli anni, e cogliere cosí linee di tendenza, pericoli e obbiettivi di lungo periodo per la politica per la società.

Purtroppo proprio la morte di Moro segna, almeno nei miei ricordi, la fine di un grande disegno di rinnovamento della politica italiana, aprendo la strada al decennio che si concluderà con la catastrofe di Tangentopoli nel 1992. Poco prima, nel 1991, anche i Vescovi italiani colgono la gravità della situazione e avvertono l’urgenza di “Educare alla legalità”, come dice il titolo di un indimenticabile (?) documento, che consiglio a tutti di rileggere perché ancora di piena attualità. Ma è tardi, e intanto grandi cambiamenti – la fine del comunismo e la globalizzazione dell’economia – mettono in discussione anche su scala mondiale vincoli e solidarietà di un tempo e, infine, la stessa legalità internazionale, che vediamo drammaticamente calpestata sotto i nostri occhi da un anno a questa parte.

Un disastro annunciato e ormai inarrestabile? Una società nazionale e mondiale irrimediabimente corrosa dall’egoismo e dall’individualismo, non piú sotto il dominio della legge ma, a tutti i livelli, sotto il dominio dei forti, dei furbi e degl’imbroglioni? Non siamo mai caduti cosí in basso? Andiamoci piano.

Quando avevo vent’anni io, in Italia c’erano il terrorismo e l’inflazione al 20%, e nel mondo c’era il comunismo sovietico. La mia madrina di battesimo, in Germania Est, non poteva insegnare filosofia a scuola perché cattolica; e non poteva venirmi a trovare in Italia, perché prigioniera della “cortina di ferro”. Suo marito, medico condotto, era tenuto a fare una lezione settimanale di marxismo-leninismo ai suoi pazienti. Sui treni, e in altri luoghi affollati, bombe di destra facevano periodicamente strage di civili innocenti; pallottole di sinistra hanno ucciso mio padre, e oltre a lui diverse centinaia di “servi dello Stato”; la loggia P2 era infiltrata in tutte le istituzioni; in un terzo dell’Italia spadroneggiavano mafia, ‘ndrangheta e camorra, senza ancora quasi nessun tentativo di rivolta politica e morale. Tutt’altro che formidabili quegli anni! La vita non era migliore di oggi. Secondo me era anzi peggiore (e ancora peggiore era stata per la generazione dei miei genitori, con l’esperienza drammatica della dittatura, della fame e della guerra, per non parlare dei nonni, che di guerre ne avevano vissute due: prima di formare l’Unione, gli stati europei si combattevano ogni trent’anni). Comunque, migliore o peggiore, il fatto è che il Signore ci ha chiamato a vivere questo tempo, ad affrontare le sfide di questo tempo, a provare a lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato – non a rimpiangere il bel tempo andato, a lamentarci del presente e fare gli uccelli del malaugurio per quel che riguarda il futuro. Se i giovani spensierati, egoisti e menefreghisti non sono lodevoli, gli jettatori non sono la compagnia piú gradevole. E quanti se ne incontrano, fra i cristiani progressisti come me! In questo senso l’insegnamento di Giovanni XXIII, il Papa di quando ero bambino, il Papa del Concilio, che invitava a non dar retta ai profeti di sventura e rimboccarsi le maniche per il bene del mondo, è un punto di riferimento essenziale: va bene, siamo in mezzo al guado, c’è bisogno di analisi puntuali ed energiche spinte per uscirne, ci penseremo noi. Possiamo farcela? Sí, con l’aiuto del Signore.

Se di fronte ad un tema impegnativo come “L’educazione alla convivenza civile” arrivano qui a Chianciano quasi duemila ragazzi, il doppio del previsto, io dico che una parte di ciò che mi hanno insegnato la famiglia, la chiesa, la scuola – qualcuno degli ideali per i quali sono vissuti e a volte morti giudici, carabinieri, politici, giornalisti – è già passato alla generazione successiva; e dico che qualche migliaio di ragazzi che non pensano solo ai fatti propri, e nemmeno si limitano a fare importanti azioni caritative, ma vogliono anche studiare il mondo in cui vivono per trasformarlo, come diceva Paolo VI nel suo testamento spirituale, sono piú che sufficienti per una buona battaglia. Non c’è bisogno di essere in decine di migliaia; e a volte un esercito di decine di migliaia di soldati può dimenticare che la vittoria viene dal Signore. Me lo ha insegnato mio padre, che amava molto il capitolo 7 del Libro dei Giudici:

Il Signore disse a Gedeone: «La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato. Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro».

Dunque, parlando di convivenza civile, legalità, impegno politico: arrivato a quasi 50 anni, quali ideali non sono tramontati? Su questi temi, che cosa mi hanno insegnato famiglia, chiesa, e scuola, e, oggi, vale la pena di trasmettere alla generazione successiva?

Mi hanno insegnato, per esempio, che solo attraverso la legge si può trasformare un campo di battaglia nel quale vincono i forti in uno spazio giuridico nel quale possono svilupparsi libertà e uguali opportunità per tutti. Purtroppo non ho studiato legge. Ma noto con curiosità e ammirazione che, oltre a mio padre, si sono laureati in legge quasi tutti i miei eroi o maestri, come don Franco Costa, assistente nazionale dell’ACI ai tempi di mio padre, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Pietro Scoppola o Romano Prodi, e molti altri che non ho tempo di elencare ma sono stati estremamente significativi per la Chiesa, per il Paese, per l’Europa.

Mi hanno insegnato che la legge è misura minima dell’amore, come dice S. Paolo; che la legge è vincolo di tutela dei piú deboli; che pagare le tasse e il biglietto dell’autobus viene prima e non dopo l’elemosina ai poveri.

Mi hanno insegnato che la democrazia e lo scambio anche vivace di opinioni sono l’unica alternativa alla dittatura e l’unico ambito nel quale la verità e la solidarietà possono, magari lentamente e faticosamente, farsi strada.

Mi hanno insegnato, e parlo di maestri ed educatori ispirati tutti da altissimi principi cristiani e civili, che, nel tentare di trasfondere questi principi nella vita personale e comunitaria, non c’è purtroppo modo di dedurre in modo univoco la politica da seguire; la quale consiste nello studio della situazione e nel rischio, sotto la propria responsabilità, della scelta di un ordine di priorità, di un programma, delle persone adatte per la sua attuazione – e si tratta quasi sempre di scelte opinabili, che non godono di quel grado di certezza e univocità della fede e degli ideali che ci ispirano. Mi hanno spiegato che in quest’impegnativo discernimento (a) “non basta essere illuminati dalla fede ed accesi dal desiderio di bene per penetrare di sani principi una civiltà e vivificarla dall’interno. A tale scopo è necessario inserirsi nelle istituzioni e non si opera con efficacia dal di dentro delle medesime se non si è scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti." (Pacem in Terris), e (b) anche fra persone in buona fede animate da identici sentimenti ed ideali può capitare di non essere d’accordo sulle soluzioni da adottare.

Mi hanno insegnato, infine, che non ci si deve sottrarre a questo difficile discernimento, perchè trasformare il mondo, anche con la politica, è dovere di ogni cristiano, incoraggiandomi a non perdere o sprecare nessuna occasione di partecipazione politica o civile, ma anche esortandomi a “non mettere il cervello all’ammasso”, come si diceva un tempo, a non abbracciare troppo precocemente la strada dell’impegno politico diretto, quello dell’attivista permanente, quasi professionale; in ciò coerenti con l’insegnamento di don Costa, che il 3 maggio 1945, all’indomani della Liberazione, diceva agli universitari cattolici:

Distinguiamo il problema degli adulti da quello dei giovani. Per i primi vi è veramente un impegno morale di intervenire nella vita politica...per i giovani bisognerebbe avvertire questo: che la gioventú ha soprattutto bisogno di una formazione morale e intellettuale; e che l’efficacia dell’intervento politico è condizionata dalla misura della preparazione morale e intellettuale; che chi attende...per formarsi, darebbe poi con una ricchezza che compenserebbe immensamente il ritardo.

Certo in alcuni momenti della storia, lo ricordava don Costa in un altro passo di quello stesso discorso, è toccato e potrà toccare anche ai giovanissimi schierarsi ed impegnarsi direttamente. Ma il mondo non finisce domani e, se appunto non trascuriamo la formazione intellettuale e morale, avremo sempre gli strumenti necessari a capire e decidere, con l’aiuto di Dio, se e quando si rende necessario un impegno politico diretto.

Oggi si festeggia l’anniversario delle elezioni politiche generali del 18 aprile 1948, che decisero in buona misura i successivi quarant’anni del nostro Paese: se l’Italia fosse rimasta fuori della NATO e dell’Europa di allora, non so dire in che stato si troverebbe oggi. Molti giovani, anche i miei genitori, s’impegnarono, per poi tornare alle loro occupazioni. A me questo è capitato a 21 anni, per le elezioni politiche generali del 20 giugno 1976, nelle quali la DC era guidata da Aldo Moro e Benigno Zaccagnini. Anche allora il fatto che ci siano stati due vincitori, la DC e il PCI (lo ricordava Moro in un altro passo del discorso già citato), che poi insieme fronteggiarono il terrorismo e la crisi economica, è stato a mio avviso un fatto essenziale per la sopravvivenza della democrazia. Vent’anni dopo, quando nasceva l’Ulivo guidato da Romano Prodi, ho collaborato con lui per un intero anno. Ambedue le volte sono stato contento di averlo fatto, e in entrambi i casi credo di aver contribuito, magari per una parte su un milione, ad una svolta decisiva per il futuro dell’Italia: anche l’entrata nell’Euro è stata un fatto storico per niente scontato. Adesso, preoccupato dalla piega che sta prendendo il nostro Paese, ho ritenuto di dover riprendere un po’ d’impegno, anche se a cavallo fra cultura e politica, contribuendo alla nascita dell’associazione Libertà e Giustizia e facendo un po’ di Girotondi. Ma nei moltissimi anni in cui non facevo l’agit-prop ritengo di aver contribuito in modo non meno importante al progresso, anche civile, del mio paese e del mondo. Non solo perché non è scontato fare il proprio dovere o essere leali nei concorsi in questo nostro Bel Paese, nel quale (ricerca Eures del 2003) il 63% dei giovani fra 15 e 29 anni si dichiara contrario al fenomeno della spintarella e della raccomandazione, però, subito dopo, il 70% confessa che, avendone la possibilità, si farebbe raccomandare per ottenere un lavoro. Ma anche perchè, come ho imparato da Giovanni Moro e Teresa Petrangolini di CittadinanzAttiva, proprio la nostra formazione cristiana ci insegna, col principio di sussidiarietà, che al di là dell’impegno diretto nelle organizzazioni partitiche, esistono molti modi di essere cittadini, di fare buona politica, in un mondo che cambia e che ha bisogno di essere governato in modo nuovo. Oltre al basilare dovere di eccellenza nello studio e nel lavoro, il primo modo di servire il mondo, quasi qualunque forma di associazionismo, e tanto piú le forme che in diverso modo incoraggiano i cittadini ad essere protagonisti, sono insomma, a pieno titolo politica: contribuiscono alla rinascita del senso civile e anche alla cosiddetta governance del territorio, a quella vita politica della città che non si esaurisce nelle elezioni e nel government, ed è fatta d’informazione e consenso critico e attivo fra un’elezione e l’altra.

In questo senso, come ultimo pensiero rivolto agli studenti, senza nulla togliere all’importanza delle battaglie per la pace, osservo che in piú di trent’anni quasi nulla è cambiato in un istituto democratico, l’assemblea, ottenuto a prezzo di grandi battaglie e presto scaduto al rango di ora libera. Alcuni parlano dell’Irak, altri – purtroppo la stragrande maggioranza – giocano a pallavolo o approfittano per ripassare le lezioni. L’unica differenza è che ai miei tempi si parlava del Vietnam. Ora, in un paese che ha scuole a volte cadenti, professori che a volte resistono a cambiamenti anche semplici (come quello di trattare il novecento nei programmi dell’ultimo anno del liceo o di adoperare e rendere pubblica una griglia di valutazione per l’assegnazione dei voti, dall’uno al dieci), presidi che a volte si limitano alla pura gestione ordinaria, credo che una delle origini della sfiducia e diffidenza verso gli istituti democratici, per citare lo studio Eurisko-Istituto Cattaneo di cui parlavo all’inizio, sia anche lo spreco di un simile strumento, l’incapacità di usarlo per scopi che sono alla sua portata, per discutere la vita della comunità scolastica, per incidere su di essa. Forse anche qui qualche migliaio di ragazzi, ricordando l’antico e indovinato slogan degli ambientalisti “Think globally, act locally”, potrebbe essere sufficiente a por fine a questo spreco e ricuperare uno strumento di partecipazione e di educazione alla convivenza civile.