Un passo della Mishnah dice che i
fondamenti della società sono verità, pace e giustizia, ma
le tre cose
sono in realtà una sola: la giustizia. Infatti dalla
giustizia, che poggia sulla verità, segue la pace. Simile, ma
piú completa, mi
pare la definizione che apre l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni
XXIII
(1963): la pace tra tutte le genti è fondata sulla
verità, sulla giustizia,
sull’amore e sulla libertà.
L’aggiunta della libertà a me pare molto
significativa. In un solo colpo spazza via la secolare diffidenza della
Chiesa
Cattolica al riguardo ed esclude con chiarezza ogni futura
interpretazione
totalitaria degli altri tre fondamenti (verità, giustizia e
amore): in sé
ottimi, ma, come purtroppo dimostrano la storia, la storia della
filosofia e la
storia della propaganda, utilizzabili, con maggiori o minori acrobazie,
perfino
a giustificazione di un Lager nazista, di un Gulag comunista o di un
tribunale
della Santa Inquisizione.
Naturalmente anche della
libertà
si può fare abuso. Leggendo il recente studio Eurisko-Istituto
Cattaneo del
2002, secondo il quale molti giovani fra i 15 e 18 anni stanno
sviluppando un
"ethos dell'illegalità" e stanno crescendo "senza virtù
civili", torna infatti alla mente la domanda posta da Emmanuel Mounier
nella prima metà del Novecento “a che serve la libertà se
mi serve solo a
scegliere fra la peste e il colera? E se gli uomini la disprezzano, non
è forse
perché non sanno che farsene?”, o la frase di Jacques Maritain,
che negli
stessi anni affermava: “nessuna democrazia può sopravvivere
senza un nucleo
morale minimo”.
A chi legge le conclusioni di
quello studio, che è una delle provocazioni alla base della
scuola di
formazione per studenti promossa dal MSAC quest’anno, viene proprio da
spaventarsi:
La percezione del bene comune,
del valore della partecipazione, dei fondamenti costituzionali del
Paese appare
drammaticamente distorta. Sembra stia rapidamente prendendo piede un ethos
“consuetudinario
e
piuttosto incivile, che potremmo anche definire ‘immoralità’ […]
orientato alla
diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità,
alla slealtà e al
cinismo verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo
dell’interesse personale sulla solidarietà e sulla
disponibilità a fare
sacrifici per il Paese”, come ha scritto recentemente il presidente
dell’Eurisko Gabriele Calvi descrivendo gli studenti italiani “senza
virtù
civili”.
Gli studenti paiono vittime di una pesante omogeneità culturale,
nella quale
svetta il primato del particulare sull’interesse collettivo e la
forte
criticità
verso gli emblemi nazionale e gli assetti istituzionali,
criticità che tende ad
aumentare nelle regioni favorite a livello socio-economico ma che
gradualmente
tende ad uniformarsi anch’essa “al ribasso”, come scrive nella suddetta
ricerca il Cartocci, in una unità nazionale che sembra
cementarsi nella
sfiducia e nella diffidenza verso gli istituti democratici dello Stato.
Ci troviamo, cioè, ben oltre
il
già triste proverbio riferito da Ignazio Silone “anarchici a
vent’anni, conservatori
a trenta”: qui pare che fin dall’adolescenza ognuno pensi i fatti suoi.
Per chi ha quasi cinquant’anni ma
ha la
fortuna di
essere ancora in contatto, grazie all’insegnamento universitario, con i
ragazzi, questo clima di declino culturale e morale, civile e politico
– forse
meno grave di quanto suggerisca lo studio appena citato, e comunque
ricco di
sfide e di opportunità – non è una sorpresa. Al
contrario, appare da un lato
riconducibile a radici lontane, e dall’altro, purtroppo, ancora lontano
da un
superamento: in altre parole l’impressione è di trovarsi proprio
in mezzo al
guado (al guano?), sia dal punto di vista locale che da quello mondiale
(o
globale che dir si voglia). Le radici qualcuno le aveva colte almeno un
quarto
di secolo fa:
...devo riconoscere che qualche
cosa da anni è guasto, è
arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana…
...c'è la crisi dell'ordine democratico, la crisi latente con alcune punte acute. Non guardate soltanto, amici, alle punte acute per quanto siano estremamente pungenti... Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell'autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né vincoli né solidarietà.
Sono frasi estratte dall’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi
parlamentari
DC, il 28 febbraio 1978. Dio sa se Moro non ha dovuto, di lí a
poco, provare
sulla propria pelle quanto fossero acute le punte del terrorismo;
eppure aveva
la capacità di guardare al di là della pur terribile
contingenza di quegli anni,
e cogliere cosí linee di tendenza, pericoli e obbiettivi di
lungo periodo per
la politica per la società.
Purtroppo proprio la morte di Moro segna,
almeno nei miei ricordi, la
fine di un grande disegno di rinnovamento della politica italiana,
aprendo la
strada al decennio che si concluderà con la catastrofe di
Tangentopoli nel
1992. Poco prima, nel 1991, anche i Vescovi italiani colgono la
gravità della
situazione e avvertono l’urgenza di “Educare alla legalità”,
come dice il
titolo di un indimenticabile (?) documento, che consiglio a tutti di
rileggere
perché ancora di piena attualità. Ma è tardi, e
intanto grandi cambiamenti – la
fine del comunismo e la globalizzazione dell’economia – mettono in
discussione
anche su scala mondiale vincoli e solidarietà di un tempo e,
infine, la stessa
legalità internazionale, che vediamo drammaticamente calpestata
sotto i nostri
occhi da un anno a questa parte.
Un disastro annunciato e ormai inarrestabile?
Una
società nazionale e mondiale irrimediabimente corrosa
dall’egoismo e
dall’individualismo, non piú sotto il dominio della legge ma, a
tutti i
livelli, sotto il dominio dei forti, dei furbi e degl’imbroglioni? Non
siamo
mai caduti cosí in basso? Andiamoci piano.
Quando avevo vent’anni io, in Italia c’erano
il
terrorismo e l’inflazione al 20%, e nel mondo c’era il comunismo
sovietico. La
mia madrina di battesimo, in Germania Est, non poteva insegnare
filosofia a
scuola perché cattolica; e non poteva venirmi a trovare in
Italia, perché
prigioniera della “cortina di ferro”. Suo marito, medico condotto, era
tenuto a
fare una lezione settimanale di marxismo-leninismo ai suoi pazienti.
Sui treni,
e in
altri luoghi affollati, bombe di destra facevano periodicamente strage
di
civili innocenti; pallottole di sinistra hanno ucciso mio padre, e
oltre a lui
diverse centinaia di “servi dello Stato”; la loggia P2 era infiltrata
in tutte
le istituzioni; in un terzo dell’Italia spadroneggiavano mafia,
‘ndrangheta e
camorra, senza ancora quasi nessun tentativo di rivolta politica e
morale.
Tutt’altro che formidabili quegli anni! La vita non era migliore di
oggi.
Secondo me era anzi peggiore (e ancora peggiore era stata per la
generazione
dei miei genitori, con l’esperienza drammatica della dittatura, della
fame e
della guerra, per non parlare dei nonni, che di guerre ne avevano
vissute due:
prima di formare l’Unione, gli stati europei si combattevano ogni
trent’anni).
Comunque, migliore o peggiore, il fatto è che il Signore ci ha
chiamato a
vivere questo tempo, ad affrontare le sfide di questo tempo, a provare a lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo
trovato –
non a rimpiangere il bel tempo andato, a lamentarci del presente e fare
gli
uccelli del malaugurio per quel che riguarda il futuro. Se i giovani
spensierati, egoisti e menefreghisti non sono lodevoli, gli jettatori
non sono
la compagnia piú gradevole. E quanti se ne incontrano, fra i
cristiani
progressisti come me! In questo senso l’insegnamento di Giovanni XXIII,
il Papa
di quando ero bambino, il Papa del Concilio, che invitava a non dar
retta ai
profeti di sventura e
rimboccarsi le
maniche per il bene del mondo, è un punto di riferimento
essenziale: va bene,
siamo in mezzo al guado, c’è bisogno di analisi puntuali ed
energiche spinte
per uscirne, ci penseremo noi. Possiamo farcela? Sí, con l’aiuto
del Signore.
Se di fronte ad un tema impegnativo come
“L’educazione alla convivenza
civile” arrivano qui a Chianciano quasi duemila ragazzi, il doppio del
previsto, io dico che una parte di ciò che mi hanno insegnato la
famiglia, la
chiesa, la scuola – qualcuno degli ideali per i quali sono vissuti e a
volte
morti giudici, carabinieri, politici, giornalisti – è già
passato alla
generazione successiva; e dico che qualche migliaio di ragazzi che non
pensano
solo ai fatti propri, e nemmeno si limitano a fare importanti azioni
caritative, ma vogliono anche studiare il mondo in cui vivono per
trasformarlo,
come diceva Paolo VI nel suo testamento spirituale, sono piú che
sufficienti
per una buona battaglia. Non c’è bisogno di essere in decine di
migliaia; e a
volte un esercito di decine di migliaia di soldati può
dimenticare che la
vittoria viene dal Signore. Me lo ha insegnato mio padre, che amava
molto il
capitolo 7 del Libro dei Giudici:
Il Signore disse a
Gedeone: «La
gente che è con te è troppo numerosa, perché io
metta Madian nelle sue mani;
Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha
salvato. Ora
annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni
indietro».
Dunque, parlando di convivenza
civile,
legalità,
impegno politico: arrivato a quasi 50 anni, quali ideali non sono
tramontati?
Su questi temi, che cosa mi hanno insegnato famiglia, chiesa, e scuola,
e,
oggi, vale la pena di trasmettere alla generazione successiva?
Mi hanno insegnato, per esempio,
che solo
attraverso
la legge si può trasformare un campo di battaglia nel quale
vincono i forti in
uno spazio giuridico nel quale possono svilupparsi libertà e
uguali opportunità
per tutti. Purtroppo non ho studiato legge. Ma noto con
curiosità e ammirazione
che, oltre a mio padre, si sono laureati in legge quasi tutti i miei
eroi o
maestri, come don Franco Costa, assistente nazionale dell’ACI ai tempi
di mio
padre, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Pietro Scoppola o Romano Prodi, e
molti
altri che non ho tempo di elencare ma sono stati estremamente
significativi per
la Chiesa, per il Paese, per l’Europa.
Mi hanno insegnato che la legge
è
misura minima
dell’amore, come dice S. Paolo; che la legge è vincolo di tutela
dei piú
deboli; che pagare le tasse e il biglietto dell’autobus viene prima e
non dopo
l’elemosina ai poveri.
Mi hanno insegnato che la
democrazia e lo
scambio
anche vivace di opinioni sono l’unica alternativa alla dittatura e
l’unico
ambito nel quale la verità e la solidarietà possono,
magari lentamente e
faticosamente, farsi strada.
Mi hanno insegnato, e parlo di
maestri ed educatori ispirati tutti da altissimi principi cristiani e
civili,
che, nel tentare di trasfondere questi principi nella vita personale e
comunitaria, non c’è purtroppo modo di dedurre in modo univoco
la politica da
seguire; la quale consiste nello studio della situazione e nel rischio,
sotto
la propria responsabilità, della scelta di un ordine di
priorità, di un
programma, delle persone adatte per la sua attuazione – e si tratta
quasi
sempre di scelte opinabili, che non godono di quel grado di certezza e
univocità della fede e degli ideali che ci ispirano. Mi hanno
spiegato che in
quest’impegnativo discernimento (a) “non basta essere illuminati dalla
fede ed
accesi dal desiderio di bene per penetrare di sani principi una
civiltà e
vivificarla dall’interno. A tale scopo è necessario inserirsi
nelle istituzioni
e non si opera con
efficacia
dal di dentro delle medesime se non si è scientificamente
competenti,
tecnicamente capaci, professionalmente esperti." (Pacem in Terris), e
(b)
anche fra persone in buona fede animate da identici sentimenti ed
ideali può
capitare di non essere d’accordo sulle soluzioni da adottare.
Mi
hanno insegnato, infine, che non ci si deve sottrarre a questo
difficile
discernimento, perchè trasformare il mondo, anche con la
politica, è dovere di
ogni cristiano, incoraggiandomi a non perdere o sprecare nessuna
occasione di
partecipazione politica o civile, ma anche esortandomi a “non mettere
il
cervello all’ammasso”, come si diceva un tempo, a non abbracciare
troppo
precocemente la strada dell’impegno politico diretto, quello
dell’attivista
permanente, quasi professionale; in ciò coerenti con
l’insegnamento di don
Costa, che il 3 maggio 1945, all’indomani della Liberazione, diceva
agli
universitari cattolici:
Distinguiamo il
problema degli
adulti da quello dei giovani. Per i primi vi è veramente un
impegno morale di
intervenire nella vita politica...per i giovani bisognerebbe avvertire
questo:
che la gioventú ha soprattutto bisogno di una formazione morale
e
intellettuale; e che l’efficacia dell’intervento politico è
condizionata dalla misura
della preparazione morale e intellettuale; che chi attende...per
formarsi,
darebbe poi con una ricchezza che compenserebbe immensamente il ritardo.
Certo in alcuni momenti della
storia, lo ricordava don Costa in un altro passo di quello stesso
discorso, è
toccato e potrà toccare anche ai giovanissimi schierarsi ed
impegnarsi
direttamente. Ma il mondo non finisce domani e, se appunto non
trascuriamo la
formazione intellettuale e morale, avremo sempre gli strumenti
necessari a
capire e decidere, con l’aiuto di Dio, se e quando si rende necessario
un
impegno politico diretto.
Oggi si festeggia l’anniversario
delle elezioni politiche generali del 18 aprile 1948, che decisero in
buona
misura i successivi quarant’anni del nostro Paese: se l’Italia fosse
rimasta
fuori della NATO e dell’Europa di allora, non so dire in che stato si
troverebbe oggi. Molti giovani, anche i miei genitori, s’impegnarono,
per poi
tornare alle loro occupazioni. A me questo è capitato a 21 anni,
per le
elezioni politiche generali del 20 giugno 1976, nelle quali la DC era
guidata
da Aldo Moro e Benigno Zaccagnini. Anche allora il fatto che ci siano
stati due
vincitori, la DC e il PCI (lo ricordava Moro in un altro passo del
discorso già
citato), che poi insieme fronteggiarono il terrorismo e la crisi
economica, è
stato a mio avviso un fatto essenziale per la sopravvivenza della
democrazia.
Vent’anni dopo, quando nasceva l’Ulivo guidato da Romano Prodi, ho
collaborato
con lui per un intero anno. Ambedue le volte sono stato contento di
averlo
fatto, e in entrambi i casi credo di aver contribuito, magari per una
parte su
un milione, ad una svolta decisiva per il futuro dell’Italia: anche
l’entrata
nell’Euro è stata un fatto storico per niente scontato. Adesso,
preoccupato
dalla piega che sta prendendo il nostro Paese, ho ritenuto di dover
riprendere
un po’ d’impegno, anche se a cavallo fra cultura e politica,
contribuendo alla
nascita dell’associazione Libertà e Giustizia e facendo un po’
di Girotondi. Ma
nei moltissimi anni in cui non facevo l’agit-prop ritengo di aver
contribuito
in modo non meno importante al progresso, anche civile, del mio paese e
del
mondo. Non solo perché non è scontato fare il proprio
dovere o essere leali nei
concorsi in questo
nostro Bel
Paese, nel quale (ricerca Eures del 2003) il 63% dei giovani fra
15 e 29
anni si dichiara contrario al fenomeno della spintarella e della
raccomandazione, però, subito dopo, il 70% confessa che,
avendone la
possibilità, si farebbe raccomandare per ottenere un lavoro. Ma
anche perchè,
come ho imparato da Giovanni Moro e Teresa Petrangolini di
CittadinanzAttiva,
proprio la nostra formazione cristiana ci insegna, col principio di
sussidiarietà, che al di là dell’impegno diretto nelle
organizzazioni
partitiche, esistono molti modi di essere cittadini, di fare buona
politica, in
un mondo che cambia e che ha bisogno di essere governato in modo nuovo.
Oltre
al basilare dovere di eccellenza nello studio e nel lavoro, il primo
modo di
servire il mondo, quasi qualunque forma di associazionismo, e tanto
piú le
forme che in diverso modo incoraggiano i cittadini ad essere
protagonisti, sono
insomma, a pieno titolo politica: contribuiscono alla rinascita del
senso
civile e anche alla cosiddetta governance del territorio, a quella vita
politica della città che non
si esaurisce nelle elezioni e nel government, ed è fatta
d’informazione e consenso
critico e attivo fra un’elezione e l’altra.
In questo senso, come ultimo
pensiero
rivolto agli studenti, senza nulla togliere all’importanza delle
battaglie per
la pace, osservo che in piú di trent’anni quasi nulla è
cambiato in un istituto
democratico, l’assemblea, ottenuto a prezzo di grandi battaglie e
presto
scaduto al rango di ora libera. Alcuni parlano dell’Irak, altri –
purtroppo la
stragrande maggioranza – giocano a pallavolo o approfittano per
ripassare le
lezioni. L’unica differenza è che ai miei tempi si parlava del
Vietnam. Ora, in
un paese che ha scuole a volte cadenti, professori che a volte
resistono a
cambiamenti anche semplici (come quello di trattare il novecento nei
programmi
dell’ultimo anno del liceo o di adoperare e rendere pubblica una
griglia di
valutazione per l’assegnazione dei voti, dall’uno al dieci), presidi
che a
volte si limitano alla pura gestione ordinaria, credo che una delle
origini
della sfiducia
e diffidenza verso gli istituti democratici, per citare lo studio
Eurisko-Istituto Cattaneo di cui parlavo all’inizio, sia anche lo
spreco di un
simile strumento, l’incapacità di usarlo per scopi che sono alla
sua portata,
per discutere la vita della comunità scolastica, per incidere su
di essa. Forse
anche qui qualche migliaio di ragazzi, ricordando l’antico e indovinato
slogan
degli ambientalisti “Think globally, act locally”, potrebbe essere
sufficiente
a por fine a questo spreco e ricuperare uno strumento di partecipazione
e di
educazione alla convivenza civile.