Cattolici e politica nell'Italia di Berlusconi
contributo al colloquio promosso da Città dell'Uomo, Roma 28/9/2002

Parlo in veste di semplice cristiano animato da passione civile e ricco di ricordi personali e familiari, però mi rendo conto di poter riuscire, nella migliore delle ipotesi, ad avanzare soltanto qualche pensierino, e quindi vi ringrazio in anticipo per la pazienza con cui vorrete ascoltarmi.

Mi sono reso conto che sono quasi quarant’anni da che è morto Papa Giovanni. Ricordo il pianto dei parenti, del mio maestro di terza elementare, delle portinaie, dei fruttivendoli, quella grande fiumana in piazza San Pietro, prima con le fiaccole a pregare per la salute del Papa, poi per l’ultimo saluto. Alcuni mesi fa, leggendo una biografia di Giovanni XXIII, ho scoperto un aneddoto di diverso segno, magari già noto a molti di voi: in quei giorni stessi della morte del Papa, sembra che un cardinale avesse detto invece: “Ci vorranno quarant’anni per rimediare ai danni che questo Papa ha fatto in quattro anni.” Ecco, siamo quasi al 2003, i quarant’anni sono quasi passati e l’auspicio non si è realizzato, non del tutto almeno.

Non tutti i ‘danni’ fatti da Giovanni XXIII sono stati rimediati. Anzi dopo la sua morte il Concilio è andato avanti con Paolo VI, ha prodotto decisioni e documenti fondamentali e un rinnovamento irreversibile nella vita della Chiesa. Oggi anche i vescovi, i preti, i singoli cristiani, i movimenti che condividono, magari segretamente, il giudizio di quel cardinale e non hanno mai digerito fino in fondo il Concilio, possono, al massimo, limitarsi a interpretarne i documenti in modo restrittivo: come disse una volta Helder Camara, possono premere il freno invece dell’acceleratore, ma non ingranare la marcia indietro. Il vento del Concilio - l’ha detto sette anni fa Giovanni Paolo II al trentesimo anniversario della Gaudium et spes - continua a soffiare e spingere la barca di Pietro.

La misura dei quarant’anni dimostra però che quel cardinale, nella stima dei tempi tipici di cambiamento della Chiesa, aveva occhio. Se è vero che questi quarant’anni non sono serviti a tornare indietro, è anche vero che non sono bastati a consolidare pienamente la svolta conciliare. Non so quanti, fra gli entusiasti di allora, prevedevano con uguale lucidità che ci sarebbero voluti più di quarant’anni affinché il Concilio Vaticano II diventasse, nel profondo del cuore, patrimonio di tutti i cristiani, di tutti i preti, di tutti i vescovi.

In tale spirito, visto che il tema di oggi ha molto a che vedere con la laicità della politica, la mia prima domanda è questa: quanti credono veramente, oggi, a quarant’anni dal Concilio, a questa laicità? C’è un famoso brano della Gaudium et spes (n. 76, Comunità politica e chiesa) che dice:

È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.
La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana.

Questo testo suona chiaro, molto chiaro. Ad alcuni padri fondatori della Democrazia Cristiana, nonché alla generazioni di universitari cattolici formati negli anni ’40 e ’50 da monsignor Montini e don Costa, come ad esempio i miei genitori, questo era chiaro anche prima del Concilio.

Eppure un candidato che alle elezioni politiche del 1996 rinunciasse al volantinaggio davanti alla propria e ad altre parrocchie del proprio collegio elettorale; che non andasse dai parroci a millantare, proprio sotto elezioni, la propria bontà e coerenza cristiana; che non si rivolgesse mai alle associazioni cattoliche in quanto tali; che vietasse al proprio staff di promuovere appelli di “cattolici per Bachelet” o “cattolici per l’Ulivo”; ebbene, un simile candidato veniva guardato, anche dai presunti eredi della tradizione cattolico-democratica, più o meno come un pazzo furioso.

Erano pochi anni fa. Solo allora mi accorsi che, quando si avvicinano le elezioni, ben pochi mantengono la testa sulle spalle. La perdurante commistione non è colpa soltanto di vescovi, preti e integralisti! dissi fra me. Al dunque, anche i migliori continuano a guardare alla Chiesa come a un serbatoio di voti. Intendiamoci: anche a me era chiaro che, col rigorismo, avrei forse perso qualche voto. Ma magari ne avrei guadagnati altri: ‘chi non risica non rosica’. E soprattutto la laicità della politica mi pareva uno di quei valori e principi non negoziabili, in nome dei quali può anche valere la pena di perdere una battaglia (mentre si vince la guerra: quell’anno lí, con Prodi, vincemmo) [1].

Se non si è coerenti con il Concilio e prima ancora con il Vangelo (date a Cesare quel che è di Cesare) l’unica volta in cui si fa politica per davvero, quand’è che emerge l’autonoma responsabilità di laici? Mi domandavo questo, vedendo quanto i miei si agitassero e quanto fosse difficile trattenerli dal promuovere belle iniziative del tipo ‘andiamo alla parrocchia tale…’.

Ero certo che mio padre avrebbe agito come me perché, 20 anni prima, quando nel 1976 si era presentato con la DC al Comune di Roma, aveva rifiutato di aderire all’idea di un giovane prete, che era don Di Liegro, il quale voleva promuovere e rendere visibile un gruppo di cosiddetti candidati cattolici nell’ambito della lista DC. Allora l’idea parve a mio padre grottesca, clericale, controproducente rispetto al fine di dare una mano da amico alla DC, e anche antitetica rispetto alle proprie profonde convinzioni sul rapporto fede-politica. Qualcuno potrà dire: i tempi di oggi sono diversissimi da allora e il paragone non ha molto senso. Ma da questo punto di vista le nuove leggi elettorali e i nuovi equilibri politici, che pure potevano essere colti dalla Chiesa da un lato, e dai politici dall’altro, come occasione per un nuovo stile, hanno invece, se possibile, peggiorato la situazione. Abbiamo cosí scoperto che la DC non era stata solo la grande diga bianca che fermava le rosse onde del comunismo - come si vedeva nel pittoresco e sempre uguale manifesto elettorale di un famoso onorevole democristiano - ma era anche una diga contro il clericalismo.

Vorrei chiedere al mio amico Paolo Sylos Labini, che è un ex azionista, un laicista di quelli veramente ‘arrabbiati’, se condivide quest’affermazione: che è peggio adesso di prima. A me pare che, una volta estinto il grande ed unico partito democristiano, tutti i partiti, anche quelli un tempo anticlericali, siano diventati clericali. Tutti ostentano rispetto e ammirazione per i valori, per la fede, per le opere di carità della Chiesa; ma guardano in realtà ad essa come a una realtà mondana, con la quale intavolare una trattativa mondana, con trasparenti intenti di scambio elettorale. Ho detto ‘tutti hanno rispetto’, ma non è vero. Alcuni fanno la trattativa a muso duro senza nemmeno fingere rispetto, con in una mano il bastone delle minacce, quando i vescovi difendono gli immigrati, e nell’altra, magari, un crocifisso. L’ultimo approccio rischia di produrre effetti dirompenti su fede e convivenza civile, ma a me colpisce di piú quella specie di asta, di gara a chi offre piú privilegi e favori alla Chiesa e alle sue organizzazioni: è molto diseducativa per tutti, e rischia di appannare lo sguardo profetico e disinteressato della Chiesa, il suo discernimento dei segni dei tempi. A volte mi sembra che siano passati non dieci ma cento anni dal documento “Educare alla legalità” del 1991 e duecento dal programma del “Ripartire dagli ultimi” del 1981. Dovremmo fare di tutto per aiutare sia i politici che la Chiesa ad uscire rapidamente dal grave rischio di un nuovo, mesto clericalismo.

In questo contesto anche l’ossessione di mantenere, in tempi mutati, non solo le insegne che rimandano direttamente all’ispirazione cristiana, ma la stessa idea di agire in politica come gruppo organizzato è opinabile e può essere controproducente.

Quanto all’opinabilità, ricordo che, da ragazzo, interrogai mio padre proprio sulla frase della Gaudium et Spes prima citata (le azioni che i fedeli individualmente o in gruppo compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana). Gli domandai: individualmente o in gruppo? Perché, ovviamente, non è la stessa cosa. La sua risposta fu che, nelle condizioni politiche in cui ci trovavamo, il modo più efficace per promuovere il vero bene del Paese e consolidare senza avventure la sua giovane democrazia era, a giudizio di molti e anche a giudizio suo, quello di un’azione politica comune organizzata fra cristiani. Ma aggiunse anche che, già nell’idea di Sturzo, un simile partito doveva caratterizzarsi per i programmi e non per l’appartenenza religiosa dei suoi iscritti; che per Sturzo la Democrazia Cristiana nasceva come un partito di cattolici in opposizione ad altri cattolici, quelli clericali o conservatori, ed era un partito aperto a tutti; ma soprattutto, disse mio padre, esistevano grandi paesi democratici, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, nei quali, sulla base di una diversa storia politica, di diverse regole elettorali e di una più antica democrazia, i cristiani non avevano un proprio partito e trovavano altre, valide forme di presenza e di servizio nella politica e nelle istituzioni. Mi citò John Kennedy e Martin Luther King, due miti dei nostri anni piú belli.

Era l’epoca della solidarietà nazionale. L’azione politica organizzata in comune fra cristiani sembrava ancora a molti la buona cosa da fare. Moro aveva concluso il famoso discorso ai gruppi parlamentari, poco prima del rapimento, con queste parole: “Camminiamo insieme, perché l’avvenire appartiene ancora largamente a noi.” La profezia di Moro era giusta. La Democrazia Cristiana ha avuto ancora un lungo periodo di governo, più o meno riuscito a seconda delle epoche. Quest’avvenire si è insomma avverato, diventando, nel frattempo, passato. Poi sono cambiate moltissime cose e i vecchi partiti si sono dissolti. Ma va ricordato che già all’epoca del discorso di Moro, venticinque anni fa, la partecipazione politica, e in particolare il partito dei cattolici, erano in grave crisi. La crisi dei partiti, che Moro aveva intuito, non è recente. Venticinque anni fa si parlò infatti (lo proponeva proprio padre Sorge) di ricomposizione del mondo cattolico; e ci fu un grande guizzo, furono ricuperate da Moro e Zaccagnini molte persone da tempo lontane dalla DC, in genere dalla politica. Ma ora, dopo altri venticinque anni, dopo il crollo del muro di Berlino, dopo Tangentopoli, dopo i referendum e il cambiamento del sistema elettorale, a me quel modello di partecipazione politica dei cattolici pare davvero fuori tempo massimo.

Nelle condizioni di oggi, la stessa idea di agire in politica come gruppo organizzato di cristiani può essere controproducente. Una volta passati allo schema bipolare, il rischio è di essere schiacciati su poche tematiche che dovrebbero essere importantissime per tutti i cristiani (la famiglia, la vita, la pace, l’accoglienza degli immigrati) indipendentemente dall’opzione destra-sinistra, riducendosi cosí a una specie di lobby tematica trasversale, o, peggio, a gruppo d’interesse, di pressione; di precludersi così definitivamente l’orizzonte di un progetto complessivo di società e, con esso, l’ambizione di guidare un intero schieramento politico, un intero Paese; di relegarsi fatalmente al ruolo di semplice ruota di scorta del sistema politico nazionale. Si potrebbe dire: va bene, abbiamo comandato per quasi cinquant’anni, ora non siamo più al volante, pazienza! faremo quello che facevano, in altri tempi, i socialdemocratici o i repubblicani. Ma servono davvero, oggi, nicchie parlamentari in bilico fra irrilevanza e clericalismo? O è piú utile saper esprimere, magari una volta ogni dieci anni (di piú non abbiamo mai fatto, nemmeno quando avevamo la balena bianca), qualche leader dotato delle tre virtú che la Pacem in Terris quarant’anni fa definiva costitutive pel politico cristiano: conoscenza, competenza e santità? Qualche cristiano capace, cioè, di leggere la realtà del proprio tempo; d’indovinare compatibilità e percorsi; d’immaginare progetti complessivi di libertà, giustizia, pace; di conquistare il consenso su questi progetti; e quindi di realizzarli, guidando verso il bene comune il Paese e magari il Continente.

Non invoco ragioni evangeliche per concentrare le energie comuni verso la formazione (spirituale, morale, sociale, culturale) anziché riversarle in un ennesimo, improbabile tentativo di ricomposizione politica. Non invoco ragioni conciliari per guardare con maggior interesse, in questo periodo, all’azione politica di alcuni singoli cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana in mezzo ad altri uomini di buona volontà, e con minor interesse alla già folta selva di sigle cristiane che propugnano anche oggi l’azione politica di gruppo (ma risultano spesso ignoti nella Chiesa, nella società, nei media). Io dico che, anche rispetto all’incisività strettamente politica, la formazione di adulti cristiani liberi, coraggiosi e responsabili, è oggi (ma forse lo è stato anche in passato) l’elemento chiave della migliore presenza cristiana nelle istituzioni democratiche. Lavorando in questo senso, a me sembra che l’avvenire appartenga ancora, in larga misura, a noi. Si sgretolano, infatti, molte certezze e non s’investe quasi piú, se non da parte nostra, nei ragazzi, nella famiglia, nella cura dei gruppi e delle persone. Un avvicendamento politico è sano; è sano per chi esce dalle stanze del Palazzo; lo è per chi vi entra e per gli elettori che, dopo aver per tanti anni sparato sulle colpe dei democristiani, attribuendo loro tutti i mali possibili e immaginabili, ne rivalutano il valore, il senso dello stato, la lealtà democratica, il contributo alla crescita del Paese. Ci basterà, penso, continuare a formare i giovani alla democrazia e all’impegno per il bene comune per avere, forse piú presto di quanto immaginiamo anche se in forme certamente diverse dal passato, nuovi uomini e donne cristiane che ci rappresentano, anche nelle istituzioni.

Formare oggi cristiani veri che amano la democrazia è quasi naturale per le associazioni cristiane che per statuto hanno tutte le cariche elettive; ed è un insostituibile servizio alla Chiesa e alla società, perché c’è un analfabetismo democratico di ritorno in tutto il Paese. E’ con la pratica che s’impara che democrazia e stile fraterno possono andare di pari passo, come ha detto Paola Bignardi all’ultima assemblea dell’Azione Cattolica; è con la fatica del confronto, della persuasione, delle votazioni che si scopre di poter felicemente mantenere, su tante cose, opinioni diverse, pur condividendo una fede grande, pur volendosi bene.

Certo c’è un po’ di analfabetismo democratico di ritorno anche in alcuni movimenti ecclesiali. Nei movimenti i cui capi non sono eletti, non c’è occasione di esercitarsi alla democrazia in concreto. E spesso le scelte e le mediazioni politiche, anziché essere affidate alla responsabilità dei singoli, sono anch’esse delegate ai capi, che scelgono per tutti. C’è un po’ di analfabetismo politico di ritorno anche nelle nostre parrocchie: si può discutere della pace, della povertà e delle armi al terzomondo, magari anche manifestare al G8 di Genova, ma è bene non discutere i programmi di Rutelli o Berlusconi sotto elezioni, perché questo rompe l’unità dei cristiani. Eppure dal governo che eleggiamo dipendono le leggi sull’esportazione delle armi o la posizione del nostro Paese su pace, guerra e terzo mondo ben piú che dalle manifestazioni e dalle buone intenzioni. Come abbiamo fatto, in pochi anni, a passare, dall’appoggio parrocchiale diretto a democristiani spesso improponibili, al tabú totale (non parliamo di politica sennò poi litighiamo)? “I beghini dell’armonia dell’unione dei cattolici tendono a sopprimere la vita comunitaria perché vogliono sopprimere la discussione, l’opinione, la tendenza diversa”: se questo è davvero il trend parrocchiale, come a me pare, si tratterebbe di un ritorno a 100 anni fa: la frase citata è di don Sturzo e risale al 1905.

Ma soprattutto c’è analfabetismo di ritorno nel Paese: nella comunicazione unidimensionale della televisione, che ci trasforma da cittadini a telespettatori, nello scontro totale che è stato inaugurato da questo governo. Siamo trascinati ad un confronto un po’ troppo elementare; fare girotondi e manifestazioni di protesta – io vi ho partecipato con convinzione in questi mesi – è certo un primo modo di farsi sentire, specie per chi non ha alcun accesso ai media; però è un modo che non basta e alla lunga può diseducare, se non è ricondotto in tempi ragionevoli nell’alveo di una proposta, di un progetto politico complessivo. Chi può fare questo? Partiti e coalizioni dovrebbero essere il luogo naturale di questa pedagogia e di quest’azione democratica di livello piú evoluto, ma in questa lunga fase di transizione non sembrano esserne (ancora?) capaci. Nel frattempo, se proprio vuole fare un servizio alla politica, la comunità cristiana, anziché incoraggiare ulteriori aggregazioni politiche e ostacolare il bipolarismo, potrebbe promuovere anche oggi un dibattito pluralistico, vivo, aperto, dall’esito non predeterminato. Come ha saputo fare, con successo, in altri momenti di tumultuoso cambiamento del Paese [2], cosí anche oggi la Chiesa può essere, tanto nella pedagogia e nella vita associativa al proprio interno, quanto nello specifico servizio alla riflessione e all’impegno culturale, fucina di cultura, di democrazia, d’ispirazione per i politici di domani.
[Giovanni Bachelet]

Note

  1. Comunque, nonostante un’intransigente distinzione fra fede e politica, il mio – secondo un’analisi di Abacus uscita poco dopo le elezioni – fu anche, nella provincia di Roma, il collegio elettorale dove si spostarono più voti dal Polo all’Ulivo; persi, dato che Gianfranco Fini, l’altro candidato, prese più voti di me (48 mila contro 41 mila), ma persi con onore.
  2. nella guerra ma anche negli anni sessanta e settanta: credo che dalle fila dei giovani cattolici di una quarantina d’anni fa siano per esempio usciti personaggi come Romano Prodi, Umberto Eco, Toni Negri ed Enzo Scotti; io dico che il bilancio, tutto sommato, è positivo