Chiesa e città degli uomini: ambiente, cultura, amici di don Costa

[Contributo di Giovanni Bachelet al convegno per i XXV della morte di Mons. Franco Costa, tenuto a Genova al Quadrivium il 26 gennaio 2002;
atti pubblicati dalla rivista Studium nel 2003]

Il mio tentativo di contribuire a questo convegno, e, ancor prima, la ragione per accettare un invito cosí impegnativo sono esclusivamente legati agli anni in cui facevamo le vacanze con don Costa, don Franco Sibilla e gli Zunin - piú che altro le Zunin: sui prati, sui sentieri e sugli alberi di Dolonne eravamo io, mia sorella e le tre figlie Zunin. Non so quanto questo consentirà di stare in tema, ma forse consentirà di non farla troppo lunga.

Tirerò fuori un po’ di ricordi di quell’epoca: episodi e sensazioni di un bambino, di un ragazzo fra i dieci e i quindici anni, in vacanza con don Costa. Trent'anni dopo, rovistando in questi ricordi, si scopre anche qualche nesso col tema di oggi: Chiesa e città degli uomini.

In una frazioncina di Courmayeur, Dolonne, andava in vacanza un gruppo di amici, che si è riunito per parecchie estati consecutive. Parecchi genovesi e alcuni romani come noi. E due preti, anzi un vescovo e un prete: don Costa e don Franco Sibilla. Per noi bambini erano un po’ come Stanlio e Ollio: due figure sempre abbinate. Si potevano incontrare andando a prendere il latte, ci si poteva scherzare e camminare insieme per le strade di Dolonne.

Una delle prime cose che da bambino ho notato è che don Costa non si faceva baciare la mano. Il primo anno di Dolonne, credo il 1965, io ero fresco di Cresima. Ricordavo bene di aver baciato l'anello al vescovo che mi aveva cresimato. Del resto cosí si usava allora (e qualcuno usa ancora oggi; almeno cosí mi è parso di notare, anche recentemente). Invece don Costa lo rendeva impossibile, sollevando con forza la mano di chi tentava il baciamano; io poi ero piccolino e mi sentivo come in un ascensore: provavo a baciare la mano, e invece lui, trac, mi tirava su.

Da grande ho pensato che in questa scelta, c'era forse un significato profondo - magari lo stesso di farsi chiamare don e non Monsignore o Eccellenza e di andare in giro con una tonaca nera e non in pompa magna, almeno in vacanza. Ma allora era presto per capirlo. A quell'epoca noi bambini e bambine ci limitavamo a ridere dei gesti inattesi e degli scherzi dei due don Franco con le tonache nere, che a volte tentavamo di ritrarre in qualche disegno. Per esempio colpiva la nostra fantasia la mano che don Costa ci metteva sulla testa: gesto paterno, gesto liturgico? secondo noi, a volte, premeva troppo forte; tiravamo su la testa e lui la spingeva giú.

Che altro succedeva da quelle parti? Beh, quello dei genitori, degli zii e dei genitori dei nostri amici pareva un gruppetto piuttosto affiatato. Bastava una virgola per parlare seriamente della Chiesa o del Paese, ma anche per farsi una risata su vari personaggi piú o meno famosi della politica e delle nostre associazioni cristiane; e noi bambini scoprivamo che genitori e preti impegnati e santi, in privato, qualche bella risata se la facevano. Un gruppetto, però, non elitario. Certo alcuni di loro e dei loro amici, noi bambini lo intuivamo, avevano forti responsabilità nella Chiesa o nel Paese; ma era forte il senso del popolo, la partecipazione affettuosa anche alle forme semplici della fede, della preghiera, della cittadinanza; insomma uno stile che, piú tardi, non ho ritrovato in altri gruppi altrettanto rinnovatori e intelligenti. In quel gruppetto di Dolonne si sentiva tenerezza per la Chiesa e non amarezza.

Naturalmente c’era grande entusiasmo per le novità che la Chiesa, allora, proponeva: erano proprio gli anni del Concilio e poi della sua attuazione, della nuova Azione Cattolica. Dolonne si trovava a distanza abissale dall’ancien régime, e ferveva di entusiasmo per il nuovo; però c’era qualche distanza anche da certi tromboni e profeti del nuovo, che pure a quell’epoca furoreggiavano.

Dico distanza, perché Costa non dava mai giudizi negativi. Diceva di tutti: “Che bravo, che bravo”; stava all'intelligenza dell'ascoltatore cogliere la presenza o meno di qualche sfumatura ironica. Una volta, se non ricordo male a proposito di una dichiarazione di Carlo Carretto (sul divorzio o altro tema controverso di quegli anni), disse appunto: “Eh sì, tanto bravo, tanto bravo; un po’ strano.”

E' interessante osservare che, anche fra persone oggi venerate come grandi guide cristiane, se non addirittura come santi, c’era qualche sfumatura, qualche differenza di stile e di vedute. Ad esempio, con grande rispetto della libertà e fede nel dialogo, c'era qualche diversità di punti di vista anche rispetto ai capi fucini di quegli anni o di anni poco successivi (ne vedo alcuni qui oggi): sull'abolizione del tesseramento individuale, sulla "scelta di classe" delle ACLI di allora, sulla volontà di restare fuori dall'ACI e dal suo rinnovamento statutario. Quando qualcuno gli chiedeva: “Ma cosa ne pensa?”, diceva: “Bah, sì, insomma, non so, non so se hanno proprio indovinato...”. Ecco, così diceva. Ma ciò era sufficiente, per chi conosceva don Costa, a cogliere qualche interessante sfumatura.

Questo gruppo di laici e preti in vacanza, che vent'anni prima erano stati anche loro fucini, era molto unito intorno al Papa e al Concilio; si sentiva come una specie di squadra che aveva un grande mandato, una nuova missione da svolgere. Non importava se qualcuno era presidente di qualcosa e qualcuno socio, se qualcuno era vescovo e qualcuno parroco da qualche parte: si trattava di rinnovare la Chiesa, mettendo al centro la Parola di Dio e l'Eucaristia, preparandola a tempi nuovi. Questa grande impresa era vissuta con semplicità e allegria, ma anche con la chiarezza di trovarsi proprio al centro della barca di Pietro, dalle parti del timone, chiamati a questa grande responsabilità da un paio di Papi e un Concilio.

“La nuova missione” è anche il bel titolo di un libro di Vittorio Gorresio su Giovanni XXIII, che vi consiglio vivamente di ripescare, se non l’aveste già letto. Con la nuova missione, lanciata da Giovanni XXIII e dal Concilio, un gruppo di preti - Montini, Guano, Costa - e i loro ragazzi (fino a poco prima lontani, tranne qualche eccezione, da responsabilità di rilievo), scoprirono di essere stati, forse senza nemmeno saperlo, l’avanguardia di tutta la Chiesa. Quello che per altri era una novità totalmente inattesa era per loro una novità attesa e sperata.

Acquisizioni conciliari, come il fatto che fra le diverse verità della fede esista una gerarchia, la chiarezza riguardo a quel che nella fede e nella vita cristiana è essenziale e quel che invece è accessorio e opinabile, l'importanza della Bibbia e della Messa in italiano, erano recepite con gioia e convinzione da questo gruppo di amici. Cosí sono cresciuto con l'idea che ciò fosse vero anche per tutto il resto della Chiesa. Solo negli anni ho capito che altrove queste novità erano meno pacifiche e scontate di quanto pensassi da bambino, e che il Concilio richiedeva ancora molto lavoro e tempo per diventare patrimonio di tutti.

Proprio perché pacifica e salda, l'ispirazione conciliare appariva naturale e non assumeva mai, come dicevo, toni tromboneschi. Ricordo ad esempio una predica di don Costa sulla Madonna di Loreto, nella chiesina di Dolonne. Ci parlò della casa di Maria, miracolosamente trasportata, secondo la tradizione, da Nazareth a Loreto. Disse che erano stati trovati, nella casa di Loreto, semi di piante presenti solo in Palestina, il che suggeriva che la leggenda avesse un fondamento. Ma poi concluse: “La santa casa, la casa di Maria, di Gesú: che bella cosa, che bella cosa. Se poi non era quella di Loreto, era certamente un'altra.” Rimanemmo tutti, piccoli e grandi, piuttosto divertiti da questo finale a sopresa. Ripensandoci oggi, mi conferma una certa dolcezza nel rinnovare, una certa capacità di distinguere, sorridendo, fra vangelo e leggenda, fra poche cose essenziali e molte altre cui si può anche essere affezionati, ma sono assolutamente inessenziali.

Di un’altra predica di don Costa ricordo una riflessione sul grido di Gesù quando muore: “Dio mio, Dio mio,perché mi hai abbandonato?”. L' ho ritrovata anche in un libretto dell’A.V.E. (Tu sei colui che ci ama, 1980) che raccoglieva i suoi ultimi esercizi spirituali. “Forse Gesù, siccome stava male e soffriva, stava recitando quello che per noi sarebbe il rosario: stava pregando con i salmi. ”. E ci ha spiegato poi: il popolo di Dio prima diceva i salmi; quando non ha più saputo dire i salmi, li ha sostituiti, perché si era persa la capacità di conoscere e leggere la Bibbia, li ha sostituiti col rosario. Ecco un'altra semplice e tranquilla riflessione conciliare che valorizzava il nuovo senza disprezzare il vecchio, una catechesi di don Costa che non ho dimenticato da grande.

Cosí anche per la nuova liturgia. In quei pochi anni la Messa, prima tutta in latino, divenne metà e metà, e alla fine tutta in italiano. Anche lì - da bambini non lo apprezzavamo, ci ho ripensato piú tardi - si attuava con gioia tranquilla ogni novità, ma senza grandi sparate. Poi magari, quando qualcuno in vacanza, non del nostro gruppo, ma di altre famiglie che venivano a Messa, diceva: “Però che peccato, era così bella, cosí solenne la Messa in latino” - evidentemente c’erano parecchi che la rimpiangevano - don Costa rispondeva: “Sì, sì, ricordo un vecchio prete mio amico che, quando arrivava alla consacrazione, talmente gli piaceva quella formula che diceva hoc - e poi sostava, e ripeteva: hoc, oh che bell’hoc”! L’interlocutore rimaneva perplesso, e non capiva se la risposta era seria o no.

Un altro racconto per noi bambini: la paglietta di don Costa. “Quando ero studente mi dovetti comprare la paglietta”. La paglietta, cappello di paglia dei primi del novecento che noi bambini avevamo visto solo nei film muti e nei cartoni animati. Gli chiedemmo: “Perché?” “La portavano quelli che non volevano fare il saluto romano”. Erano gli anni del fascismo dilagante; se la mano era occupata a togliersi il cappello, si evitava di fare il saluto romano. Ecco un altro ricordo di don Costa: il suo deciso antifascismo, il vivo senso dello stato e del valore della democrazia nella vita associata, nella vita civile, anche nella vita ecclesiale.

Concludo, perché credo di avere ampiamente sforato, e chiedo scusa al mio illustre presidente. Su quell’epoca, sugli anni del Concilio, negli anni successivi, soprattutto nei piú recenti, ne ho poi sentite dire tante. Ho sentito anche dire che è stato il momento in cui, con la decisione di puntare al sodo, al vangelo, al rinnovamento della liturgia, all’annuncio cristiano, si è perso peso, si è persa la presa sulla politica e sulla società, si è diventati “insignificanti”.

La mia impressione è invece che anche nel rapporto chiesa-mondo, così come nella liturgia e in altri campi - lo diceva prima il nostro monsignore - il radicale rinnovamento del Concilio Vaticano II funzioni bene, ma sia solo agli inizi. Noi avevamo visto questo nuovo stile così vivo, tranquillo e naturale in don Costa e in altri preti e cristiani ex fucini - i nostri genitori, zii, amici - da illuderci che fosse cosa fatta, traguardo già raggiunto da quasi tutti, al massimo questione di pochi anni. Invece la Chiesa è grande e ha tempi lunghi. Anche nell'era di Internet i tempi di rinnovamento delle abitudini e dei modi di pensare di centinaia di migliaia di preti e vescovi e di milioni di cristiani sparsi in tutto il mondo si misurano in decenni, forse in secoli.

Quando ai primi di giugno del ‘63 morì Giovanni XXIII (il giorno prima don Costa era stato ordinato vescovo), ad un cardinale fu attribuita da un giornalista questa frase: per rimettere a posto tutti i guai che ha fatto questo Papa in quattro anni ci vorranno quarant’anni. Non so se la frase fosse vera, ma insomma eccoci qua: sono quasi passati i quarant’anni, e per fortuna non tutti i guai combinati da Papa Giovanni sono stati rimediati.

Ecco, con questo concluderei davvero, osservando che oltretutto, proprio i discepoli di don Costa, proprio quelli che hanno creduto che la Chiesa dovesse concentrarsi sul vangelo e non fare piú politica in prima persona, sono poi quelli che hanno anche - lo diceva prima Romolo, citando Branca - alla fin fine formato e fornito diverse generazioni di persone efficaci e significative per la storia, anche politica, d’Italia. Persone che non sono state colte di sorpresa dall'Italia che cambiava, e hanno contribuito, anche in anni recentissimi, alla sua crescita democratica e al suo ruolo internazionale.

Dunque, nel fare bilanci, nello scrutare il cielo (come a Dolonne, alla vigilia delle gite, per indovinare se sarà bello o pioverà), guardiamo con attenzione e preoccupazione ai rischi e ai pericoli reali: guerre, globalizzazione senza regole, involuzioni del Paese e della stessa comunità cristiana. Ma cerchiamo anche, come diceva Papa Giovanni e abbiamo imparato da don Costa, di non dar retta ai profeti di sventura, di saper cogliere i germi di bene da far crescere, di lavorare con fiducia per un futuro migliore. Forse non siamo alla vigilia dell'Apocalisse, ma soltanto all’inizio di un faticoso, lungo, fecondo periodo di rinnovamento della Chiesa e del mondo, del quale don Costa, in Italia, è stato uno dei grandi pionieri.