Contributo all’incontro della Fabbrica del Programma su Università e Ricerca
Giovanni Bachelet, Bologna 17/3/2005

La breve lista di spunti che presenterò nei quattro minuti canonici è in larga misura ispirata alle conversazioni degli ultimi mesi su ricerca, innovazione e università avute col gruppo di Milano (LibertàEguale, Di Donato, Salvati, Amati ed altri), col gruppo di studio della Margherita (Lucio Bianco ed altri) e col professor Figà Talamanca.

No allo stupidario anti 3+2

La riforma l’abbiamo fatta noi. Risponde ad un piano europeo di armonizzazione dei titoli di studio universitari. Corrisponde a un’esigenza, identificata fin dal 1963 dalla Commissione Ermini: “differenziare la formazione universitaria a seconda che essa sia indirizzata a scopi strettamente professionali, a scopi professionali con fondamento scientifico, ovvero, infine, a scopo strettamente scientifico”. Lo so anch’io che la vecchia laurea italiana era meglio di un BS: in USA, nel 1979, la mia laurea alla Sapienza fu equiparata addirittura ad un PhD. Il problema (con rispetto per il collega che insegna in California) è se, per chi si è poi occupato di software, telecomunicazioni o fisica sanitaria (l’80% dei laureati del mio corso), fossero altrettanto necessari gli ultimi due o tre anni di specializzazione e tesi di ricerca. Discorso analogo vale in quasi tutte le discipline. L’università di élite che sforna solo professionisti e specialisti di alto livello, ottima e funzionale alla società di 80 anni fa (quando nacque), era già inadeguata 40 anni fa (commissione Ermini): come si fa a rimpiangerla oggi? Eppure fra le parole d’ordine delle proteste studentesche degli ultimi anni ho intravisto con orrore anche: no al 3+2. Non abbocchiamo a questa follia. Sí invece a un monitoraggio accurato del suo funzionamento nel primo triennio di applicazione, e sí a riaggiustamenti anche significativi. Senza però stravolgere il principio, che, se ben realizzato, riporta i nostri diplomati e laureati a competere ad armi pari coi loro coetanei in Europa e nel mondo, anziché cominciare la gara con l’handicap di tre o quattro anni in piú sul groppone.

No allo stupidario anti-precariato

Qualche anno di postdoc e ricerca in ruoli non permanenti c’è in tutto il mondo. Nella maggioranza dei casi corrisponde non casualmente alla fase piú produttiva e creativa. Chiamare ciò “precariato” sottintendendo un sopruso antisindacale è una scemenza. Su questo, per fortuna, ha parlato poco fa Luca Leuzzi della “rete dei ricercatori precari”, mostrando che è possibile difendere in maniera intelligente e non corporativa gli interessi dei ricercatori non permanenti, insieme e non contro gli interessi della ricerca e del Paese. Concordo con le sue tre richieste:

    no a sanatorie; sí, invece, ad uguali opportunità per tutti i capaci, sí ad ingressi periodici e frequenti nei ruoli permanenti basati su concorsi aperti e meritocratici (nota: proprio i blocchi pluriennali delle assunzioni, come quello dell’ultimo governo, hanno storicamente alimentato la spirale che genera poi maxisanatorie);

    sí ad aumenti consistenti del numero di posti permanenti di ricerca (vedi la scelta della Francia l’anno scorso, risposta di un governo di destra normale alle richieste di scienziati e uomini di cultura)

    sí alla disciplina e tutela dei diritti dei ricercatori non permanenti, la cui incertezza del posto di lavoro (aggiungo io) andrebbe compensata anche con adeguati livelli salariali; il che si ricollega al punto successivo:


No allo stupidario sulla fuga dei cervelli

Sono felice e fiero che i miei migliori studenti abbiano conquistato un posto di ricerca in Olanda o in Francia. Dopo la laurea in Italia ho lavorato negli USA e in Germania: mi sono trovato benissimo, ho fatto onore al mio Paese, ho imparato un sacco di cose. Ora, poi, l’Italia è uno dei tanti Stati membri dell’UE: quando mai la California ha considerato “cervelli in fuga” i ricercatori nati in California ma impiegati nei laboratori del New Jersey, o viceversa? Che i nostri laureati piú bravi siano richiesti all’estero non è un problema, ma un successo della nostra formazione universitaria di fascia piú alta. Il problema è invece la totale mancanza di reciprocità: i laureati piú bravi degli altri paesi Europei e occidentali non vengono in Italia; anche i laureati migliori dei paesi emergenti come India e Cina o in grave crisi come la Russia preferiscono Francia, Germania, Olanda. Il motivo è che in Italia i salari dei posti di ricerca non permanenti (ma anche i salari iniziali dei posti permanenti) non sono competitivi con quelli offerti da altri paesi europei, e soprattutto nel reclutamento i tempi sono imprevedibili e le condizioni di trasloco e sistemazione iniziale (essenziali per chi si sposta da un paese all’altro) del tutto ignorate. E’ su queste condizioni che occorrerà agire perché la mobilità su scala continentale non sia a senso unico, ma a due sensi.

Sí ad un sostanziale aumento dei finanziamenti a università e ricerca

Il grande obiettivo posto dall’UE a Lisbona (2000) – diventare nel mondo la piú competitiva e dinamica economia basata sulla conoscenza – tradotto quantitativamente a Barcellona (2002) nell’obbiettivo di arrivare entro il 2010 ad una quota del 3% del PIL investita in ricerca e sviluppo non ha avuto alcun riscontro nelle politiche governative degli ultimi tre anni, ma lo dovrà avere nelle nostre, se vinceremo le elezioni del 2006. Senza una simile, stringente priorità politica, quello che diciamo oggi resterà sulla carta. Tanto nella ricerca che nell’università le riforme a costo zero non esistono, e una critica senz’altro giusta alla nostra riforma del 3+2 è quella di non essere stata finanziata.

Nuovi meccanismi per distribuire nuovi soldi

Non è tuttavia augurabile che i finanziamenti aggiuntivi siano distribuiti proporzionalmente ai vecchi. In proposito il primo governo dell’Ulivo ha al suo attivo una success story che può far da modello per le politiche future: il COFINanziamento introdotto (quando Tognon era sottosegretario), basato su valutazioni con referee anonimi di livello internazionale. Da molte parti, per la ricerca, ho sentito riproporre un simile modello, ma su larga scala: un dual system, nel quale i nuovi fondi sono assegnati, sulla base di rigorosa valutazione, da un’apposita, nuova agenzia, simile alla National Science Foundation (USA), indipendente dal governo ma anche dal mondo accademico, nel senso che i suoi funzionari, pur provenendo dal mondo della ricerca e dell’università, rivestono, per un limitato numero di anni, un ruolo esclusivo di valutazione e assegnazione di fondi a cavallo fra scienza e burocrazia, senza poter, in quel periodo, godere essi stessi, direttamente o indirettamente, dei fondi che distribuiscono. Avremmo probabilmente come ricaduta una selezione e razionalizzazione delle università (già iniziata col COFIN, è stato ricordato poco fa), per le quali è peraltro pensabile anche un sistema indipendente di valutazione della didattica.

Scorporare di nuovo università e ricerca dalla pubblica istruzione?

Il riaccorpamento ministeriale, formalmente promosso dall’Ulivo ma ancor prima realizzato nella persona del ministro Berlinguer, è stato avvertito da molti operatori dell’università e della ricerca come una mossa infelice, al di là dei meriti del singolo ministro. Se l’idea di una nuova agenzia (punto precedente) non si realizzasse, sembrerebbe a molti auspicabile almeno un ritorno alla separazione voluta da Ruberti, con le energie e la reputazione di un ministro e di un ministero giocate esclusivamente sul fronte strategico della ricerca e dello sviluppo.