Ricordi di
Sandro Pertini
Intervento al convegno Democrazia
e Legalità della Fondazione Sandro Pertini, Palazzo
Vecchio, Firenze
1/10/2004
Saluto la signora Carla Pertini; il Presidente Scalfaro; il Presidente
della Fondazione, Almerighi; il professor Sylos Labini. Tutti i
presenti a questo tavolo, e molti dei presenti in sala, sono esperti
del tema di questo convegno: Legalità e Democrazia. Io posso
fornire invece soltanto qualche ricordo, vecchio di una ventina d’anni
ma ancora molto vivo.
Come ha già detto il Presidente Scalfaro, nel 1978 Sandro
Pertini, appena eletto Presidente della Repubblica, ricordò Aldo
Moro, morto due mesi prima, precisando: “se fosse vivo, lui e non io
sarebbe qui”. A maggior ragione, molto a maggior ragione, posso dire
che, se fosse vivo mio padre, lui e non io sarebbe qui: vedo infatti
qui quasi tutti gli ex vicepresidenti del Consiglio Superiore della
Magistratura.
Ringrazio Mario Almerighi –collega di mio padre al Consiglio Superiore
della Magistratura, ma anche unico Presidente nazionale
dell’Associazione Nazionale Magistrati ad aver regnato, a mio avviso
molto efficacemente, per un solo giorno, nell’autunno del 1998– per
avermi fatto il grandissimo onore d’invitarmi.
Sandro Pertini è inseparabile dal ricordo degli ultimi anni di
mio padre, quelli appunto del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il “vecchio rimbambito che scambia i corridoi del Quirinale con le
trincee della Resistenza” e il “culo di pietra”, che merita solo un
“cuore di piombo”, come Pertini e mio padre vennero rispettivamente
definiti in altrettanti comunicati delle Brigate Rosse, si stimavano e
si trovarono bene insieme.
Ricordo quando passammo a rendergli omaggio, l’estate del 1978, a Selva
di Val Gardena, la montagna che tutti e due amavano e frequentavano in
vacanza. Pertini gli disse: guardi che non c’e’ mica bisogno che tutti
gli anni mi venga a salutare, non facciamo complimenti, qui siamo in
vacanza tutti e due! Pertini era anche questo.
Ricordo quando arrivai trafelato dall’aeroporto, dall’America, quel
tremendo 13 febbraio del 1980. In certi momenti stentiamo a credere a
quello che ci è stato detto. Entrando a casa trovai Pertini
seduto sul divano del nostro salotto, vicino al professor Amaldi, con
mia madre e mia sorella. Capii ancora una volta che era proprio vero:
papà non c’era piú.
Soltanto pochi mesi prima, a fine 1979 (svolgevo da pochi mesi il mio
primo lavoro negli Stati Uniti), mio padre mi aveva segnalato, in una
delle ultime lettere o telefonate, la dura reprimenda di Pertini al
ministro Giannini, colpevole di aver dichiarato che “per un giovane
è meglio andarsene da questa Italia”. Forse anche per questo
accettai, nel 1981, una modesta e breve borsa di studio in Italia,
rinunciando ad un contratto, molto migliore, dell’università di
California a Berkeley. Forse anche per questo nel 1984, dopo una
seconda e non breve emigrazione in Germania, tornai a lavorare in
Italia, stavolta definitivamente.
Fui quindi emigrante (benché emigrante di lusso, come
scienziato) per quasi tutto il settennato di Pertini. Un emigrante che,
con i colleghi stranieri, era molto fiero di avere “un partigiano come
Presidente”, per citare un successo di Sanremo del 1983 (L’Italiano di
Toto Cutugno); fiero di avere un Presidente che non mancava di
ricordare, nei suoi discorsi di fine anno, che anche lui era stato
emigrante, e ben sapeva che cosa vuol dire lavorare a casa d’altri;
fiero di un Presidente che rappresentava, per citare un’altra canzone
di quegli anni terribili ed eroici, “l’Italia che non ha paura”,
“l’Italia che lavora”, “l’Italia che resiste” (Viva l’Italia, Francesco
De Gregori 1979).
In quegli stessi anni altri politici (oggi vivi e vegeti, e spesso
ancora sulla breccia) coniavano e diffondevano lo slogan “né con
lo Stato né con le Brigate Rosse”. Anche allora, infatti, per
diversi motivi, una parte del bel mondo politico si faceva beffe della
legalità e del senso dello Stato; e finiva, anche allora, per
prendersela coi magistrati, colpevoli di teoremi indimostrabili ed
artefici di persecuzioni politiche a senso unico. Allora come oggi.
Anzi, benché il contesto sia molto diverso, si tratta a volte
delle stesse persone, degli stessi politici, degli stessi avvocati.
Pertini invece, magari con una semplicità che veniva
ridicolizzata in qualche salotto buono, si schierava, senza
circonlocuzioni, dalla parte della legge: era evidente a tutti che
stava dalla parte dei giudici e dei carabinieri e non apprezzava
l’opera dei ladri e degli assassini. Questo dovrebbe essere ovvio per
chi si trova al vertice della Repubblica; ma a quanto pare non lo era,
se, nel 1985, Pertini si trovò a dover ricordare al ministro De
Michelis, reduce da una stretta di mano in pubblico con Oreste Scalzone
a Parigi, che lui, Pertini, non avrebbe mai stretto la mano a un
latitante che, per evitare il carcere, era scappato dall’Italia.
Nel ricordare Pertini c’è un unico, ma gravissimo dubbio che mi
assale. Se, come diceva con disprezzo una rivista filo-terrorista di
quegli anni (ritrovata su web in questi giorni), “il nostro caro
Pertini, nella demagogia dello Stato assurto a Giovanni XXIII della
Repubblica”, quello che anche da Presidente si paga coi soldi suoi il
biglietto dei viaggi privati, non sia servito solo “come falsa
coscienza, come foglia di fico” di un Paese irrimediabilmente corrotto
e
pasticcione. Di un Paese che guazza nell’imbroglio e nel complotto, e,
anziché il meglio delle radici cristiane e socialiste, laiche e
liberali della Resistenza e della Costituente, mette insieme il peggio
del clericalismo, del comunismo e della massoneria, il peggio di
Arlecchino e Pulcinella. Il peggio del peggio, insomma, magari in nome
del realismo, del bene comune, perfino del riformismo; magari in modo
tale da far sembrare rimbambiti o ingenui (a seconda dell’età)
quelli che lottano per un’Italia giusta e pulita, per un’Italia normale.
Ma scaccio il dubbio e rispondo di no. Non è stata una foglia di
fico, è stata la fionda di Davide. Lottare, anche in pochi,
quando sembra impossibile vincere, è stato un insostituibile
servizio alla libertà e alla giustizia, alla verità e
alla pace. E’ stata efficace la lotta di Pertini contro il fascismo. E’
stato cruciale il servizio di Pertini ai vertici dello Stato, negli
anni tremendi delle bombe, degli attentati terroristici, dello scandalo
Lockheed, della loggia P2, dell’esplosione della mafia.
L’azione di Sandro Pertini non è servita solo a salvargli
l’anima. Traguardo peraltro non disprezzabile: proprio Pertini disse
una volta al Papa, in cima a una montagna nevosa, “sono ateo ma, se
c’è il Paradiso, ci andrò anch’io”.
L’azione di Pertini è servita anche al bene di tutti. Ha
mostrato che, nei momenti difficili, pochi giusti coraggiosi sono
sufficienti a salvare un intero Paese; ha mostrato che la politica non
è solo intrallazzo, ma può essere anche, come disse una
volta il papa Paolo VI, la piú alta forma di amore e di servizio
del prossimo; ha cosí restituito speranza e fiducia nella
politica, quella vera, ad un’intera generazione che allora aveva
vent’anni, la mia generazione; e in alcuni di essi, fra cui me,
alimenta ancor oggi il coraggio e la voglia anzitutto di lavorare
onestamente, senza pestare i piedi degli altri ma anche senza piegare
la schiena; e poi di conservare l’amore per la Repubblica e la
Costituzione, e di pronunciare ancora parole come libertà,
giustizia, verità e pace, senza né vergognarmi quando mi
guardo allo specchio in bagno (come dice il professor Sylos), né
sentirmi rimbambito o ingenuo; anzi cercando di professare questi
valori e trasmetterli ai figli, affidando loro, insieme alla memoria
dei nonni, anche quella di Pertini partigiano e Pertini presidente. Con
questo patrimonio di memoria alcuni di loro –non c’è bisogno che
siano in molti, anche per il presente ed il futuro bastano pochi giusti
e coraggiosi– supereranno, illuminandoli, i tempi bui che, nonostante i
miei sforzi di ottimismo, io temo di vedere all’orizzonte.