Le radici cristiane dell’Europa

Giovanni Bachelet, Concesio, 1º ottobre 2005

Ringrazio don Osio, che tramite il professor Fiorini mi ha invitato, a nome delle cinque Parrocchie, dell'Amministrazione Comunale di Concesio e della Diocesi di Brescia, a questa settimana montiniana, che cade nel 40° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II.

Parlare a Concesio (patria, oltre che di Paolo VI, anche del mio vecchio parroco Padre Angelo Arrighini) è davvero un grande onore per il bambino che allora aveva dieci anni e adesso ne ha cinquanta, ma ricorda ancora la collezione di francobolli e il rosario avuti dalle mani del Papa, la ricerca delle Elementari sulla Chiesa che si rinnova, la prima Comunione in latino e la Cresima in italiano, le prime messe con la chitarra alle Medie. È un grande onore per il ragazzo che in anni di contestazione, nel tema di maturità sull'articolo 11 della Costituzione (quello che dice: l'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali) anziché Marx, Lenin e Mao Tze Tung, allora molto in voga, citava Paolo VI: “«La pace è possibile!”» Ma anche: ““«Se vuoi la pace, lavora per la giustizia”“»; ““«lo sviluppo è il nuovo nome della pace”» (Populorum Progressio n.76);“«I ricchi, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l'attentare ai loro valori piú alti, sacrificando la volontà di essere di piú alla bramosia di avere di piú.“» (n. 49).

Insomma, in qualità di Papaboy dei tempi di Paolo VI, sono grato, onorato e commosso per l'invito a Concesio. E tuttavia, oltre alla mancanza di preparazione storica e giuridica (nel programma c'è scritto che sono professore universitario, però insegno Fisica), parlare di radici cristiane mi risulta difficile anche per altri motivi. Anzitutto ero stato invitato a parlare del messaggio del Concilio agli uomini di governo e dei ricordi su mio padre e Paolo VI; solo pochi giorni fa mi sono accorto che il titolo della mia relazione era cambiato. Sul nuovo titolo «Le radici cristiane dell'Europa», certo di maggiore attualità rispetto a quello originario, ho competenza ancora minore che sul Concilio, su mio padre e su Paolo VI. E poi, cosa piú importante, si tratta di un tema sul quale ho fatto fra me e me riflessioni non molto ortodosse che finora avevo avuto la fortuna di non dover presentare pubblicamente. Se ora con una certa trepidazione mi accingo a farlo, è perché ho colto quest’o imprevisto cambio di titolo come una chiamata, una responsabilità imprevista; della quale spero di essere degno, provando a riflettere con voi sulle radici cristiane dell'Europa sulla base dei miei ricordi di papà e Paolo VI, secondo le mie possibilità.

Quando sento parlare di Europa cristiana, il ricordo torna inevitabilmente ad alcune scritte sui muri del mio quartiere, nei lontani anni ’70 del secolo scorso: “«Civiltà Cristiana”», «“Europa Civilt໔. Gli autori di quelle scritte non erano, però, fans della Chiesa e dei vescovi. Vicino si leggeva infatti “«Paolo VI traditore”» e “«Poletti Superstar”»; le scritte erano accompagnate da grandi croci, a volte uncinate. Erano gli anni del film Jesus Christ Superstar; Poletti, allora Cardinale Vicario di Roma, aveva promosso un grande convegno sui mali di Roma; Paolo VI era ai ferri corti con Monsignor Lefebvre, che rifiutava di obbedire ai decreti del Concilio. La reazione tradizionalista conteneva anche elementi che a me adolescente parevano piú comici che seri: c'era ad esempio un noto provocatore che una volta a messa si piazzò vicino al celebrante, e, al momento buono, per contestare l’'allora nuovissimo «segno della pace», gli diede un violento spintone. Perché tanta ostilità, che cosa c'entravano l'Europa e la civiltà cristiana con il rifiuto del Concilio e della (allora nuova) liturgia non piú in latino? Il fatto è che la Chiesa, dalla valorizzazione delle lingue e delle tradizioni nazionali nella liturgia fino al ripensamento della propria posizione nel mondo contemporaneo, riscopriva in quegli anni il significato profondo della propria cattolicità, della propria universalità, e proponeva a chiare lettere il superamento di una visione eurocentrica, la fine dell'identificazione del cristianesimo con una particolare cultura e civiltà. Cosí come, senza idolatrare la ligua ebraica, la Chiesa nell'età apostolica aveva subito parlato latino e greco, gettando semi fecondissimi, facendo lievitare gli elementi positivi delle rispettive civiltà e liberandole da quelli negativi (come la schiavitú), anche adesso la Chiesa doveva, rispettare, comprendere, valorizzare, coinvolgere, lievitare, liberare dal male ogni civiltà e ogni cultura. Ciò risultava a quanto pare indigesto per chi dalla Chiesa Cattolica si aspettava il ruolo di cappellano militare dell'Occidente euro-americano. Ma per avere un'idea di quanto chiare fossero le nuove disposizioni, lascio la parola al n. 37 della Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra Liturgia, la prima approvata da Paolo VI e dal Concilio, a fine 1963:

La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella Liturgia, una rigida uniformità, anzi rispetta e favorisce le qualità e le doti d'animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se è possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella Liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico.

Sempre per farsi un'idea, ecco una parte del n. 54 della Costituzione “Gaudium et Spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, significativamente intitolato "Nuovi stili di vita"”:

…...la cultura odierna è caratterizzata da alcune note distintive: le scienze dette «esatte» affinano al massimo il senso critico; i piú recenti studi di psicologia spiegano in profondità l'attività umana; le scienze storiche spingono fortemente a considerare le cose sotto l'aspetto della loro mutabilità ed evoluzione; i modi di vivere, e i costumi diventano sempre piú uniformi; l'industrializzazione, l'urbanesimo e le altre cause che favoriscono la vita collettiva creano nuove forme di cultura (cultura di massa), da cui nascono nuovi modi di pensare, di agire, di impiegare il tempo libero; lo sviluppo dei rapporti fra le varie nazioni e le classi sociali rivela piú ampiamente a tutti e a ciascuno i tesori delle diverse forme di cultura, e cosí poco a poco si prepara una forma di cultura umana piú universale, la quale tanto piú promuove ed esprime l'unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture.

Alla luce di queste premesse, la battaglia sulle radici cristiane dell'Europa da inserire a ogni costo nel Trattato Costituzionale europeo mi ha colto un po’' di sorpresa. Niente da dire, naturalmente, dal punto di vista storico, culturale e civile: l'influenza del Cristianesimo sulla cultura e sullo sviluppo dell'Europa è innegabile. Da un punto di vista tattico il rischio di autogol sembrava alto: l'eventuale mancato riferimento alle radici cristiane nel preambolo sarebbe parso (e alla fine è parso) una sconfitta della Chiesa (anzi delle Chiese, visto che altre confessioni presenti al tavolo della Convenzione l'avevano condivisa). Ovviamente, se la battaglia era sentita come un dovere profetico, il rischio di un esito negativo non doveva avere alcuna importanza. Per esempio: Giovanni Paolo II ha condannato senza appello la guerra in Irak senza domandarsi, credo, se Bush o Blair, Aznar o Berlusconi, o gli stessi Polacchi gli avrebbero dato retta o meno. Ma il mio primo, segreto dubbio era proprio questo: se la presenza o meno di un riferimento alle radici cristiane nel preambolo del Trattato Costituzionale europeo fosse di gravità paragonabile alla guerra in Irak, insomma se fosse davvero una questione di vita o di morte per la quale valesse la pena di spendere il prestigio della Chiesa.

A me pareva proprio di no. Il Trattato nasceva da una Convenzione ristretta e intergovernativa, lontana dai cittadini, presieduta da quel brav'uomo di Valery Giscard d'Estaing (famoso, vent'anni prima, per aver accettato parecchi diamanti dall'imperatore-cannibale Bokassa della Repubblica Centrafricana), e nasceva in un momento difficile per i rapporti fra i grandi paesi d'Europa. Con queste premesse si preannunciava come un flop, o, nel caso migliore, come una tappa intermedia e non decisiva di un processo ancora lungo e faticoso. Ma anche essendo ottimisti e immaginando che si trattasse, invece, di una tappa decisiva per la nascita della Costituzione Europea, il precedente della Costituzione Italiana avrebbe dovuto far riflettere. Nella Costituzione italiana non c'è alcun preambolo e alcun riferimento religioso. È un bene, è un male? Uno dei Costituenti, un grande cristiano, Giorgio La Pira, aveva inizialmente immaginato e proposto agli altri cattolici della Costituente un'esplicita invocazione iniziale a Dio. Ma si persuase e ritirò subito la sua proposta quando i suoi amici gli fecero presente che la sua discussione e approvazione avrebbe costretto la Costituente a pronunciarsi a maggioranza a favore o contro il Padreterno, ottenendo, anche in caso di “vittoria”, qualcosa di diametralmente opposto a ciò che La Pira auspicava: anziché una comune, fraterna invocazione al Padre Celeste, una votazione che Lo avrebbe inevitabilmente fatto apparire come padre solo di alcuni.


Non è un precedente esattamente calzante, me ne rendo conto: altri erano i tempi, altra la natura dell'assemblea Costituente. Comunque a quei tempi la Chiesa si limitò a trattare in prima persona la questione dei Patti Lateranensi, ma per il resto, anche grazie alla leadership di grandi democratici cristiani formatisi alla dura scuola del carcere e della resistenza al fascismo, i cattolici della Costituente lavorarono in grande autonomia, puntando (con successo) ad una forte impronta personalista e cristiana nel contenuto: persona umana, valore rieducativo della pena, niente pena di morte, libertà di educazione dei figli, ripudio della guerra, dovere di lavorare per ridurre le diseguaglianze, libertà religiosa, istruzione gratuita. Contribuirono cosí ad una Costituzione che ha fatto (finora!) da spina dorsale ad un Paese cresciuto per quasi sessant’'anni nella pace e nella libertà. Le radici cristiane si recidono o si rafforzano anche, se non soprattutto, attraverso contenuti come questi. Cosí anche in Europa il processo di unificazione, la pace duratura fra paesi che si sono scannati per secoli, la difesa di un modello sociale che non smantelli le difese delle fasce piú deboli, la laicità dello Stato e la libertà religiosa, anche in assenza di riferimenti espliciti nei trattati costituzionali, sono frutti buoni per tutti, che fanno onore, ben piú di un preambolo, alle radici cristiane dell'Europa.

L'analogia con la Costituente italiana è imprecisa anche perché un preambolo che riconosca esplicitamente le radici cristiane dell'Europa è cosa molto diversa dall'invocazione al Dio padre di tutti che aveva in mente La Pira. Pretendere, come la Chiesa Cattolica ha fatto in questi anni, che le radici cristiane (o giudaico-cristiane) siano riconosciute ed anteposte ad un testo di natura costituzionale, può involontariamente suonare come esclusione o secondogenitura di altri gruppi religiosi, proprio in un tempo, non facile, di grandi migrazioni e grandi rimescolamenti etnico-religiosi. L'insistenza sull'Europa cristiana può poi confondere noi credenti, suggerendo, per simmetria, una identità fra civiltà europea e proposta cristiana, un eurocentrismo che la Chiesa, come abbiamo visto, avrebbe dovuto abbandonare quarant'anni fa con il Concilio. Ma soprattutto, l'insistenza sulle radici cristiane proietta sul presente e sul passato una domanda inquietante: esiste, è mai esistita non dico una civiltà compiutamente cristiana, ma almeno una sua abbastanza soddisfacente approssimazione? In caso negativo, non è proprio il «non appagamento» di cui parlava Aldo Moro, il fatto che nessuna civiltà umana riesca mai a realizzare pienamente l'ideale evangelico (e tutte ne siano sempre messe in discussione) il segno distintivo dell'impegno cristiano in politica? In caso affermativo, come mai, nel 2000, ci siamo trovati a dover chiedere scusa, insieme al Papa, per le crociate e le guerre di religione, per il colonialismo accompagnato dalla distruzione di etnie e culture e poi anche dallo schiavismo, per la santa Inquisizione e l'antisemitismo? Da dove è venuta fuori tutta questa roba, dalle nostre radici cristiane? E che fine hanno fatto le radici cristiane, se nell'Europa, nell'Occidente di oggi, intere tribú di matti, barboni, immigrati, anziani, malati terminali vivono in disperata solitudine, spesso davanti ai nostri occhi, mentre Jacques Attali (prima pagina del Corriere, qualche giorno fa) descrive la nostra come l'ultima generazione di monogami”, e Zygmunt Bauman come una società ormai liquida, senza legami stabili (con l'unica differenza che Attali trova il tutto molto affascinante, mentre Bauman lo trova molto preoccupante)?

Sarebbe semplice finire qui, con questa raffica di domande. Voglio invece provare a proporre una piccola conclusione positiva. Ho cercato col calcolatore la parola «radici”» in tutti e quattro i Vangeli, scoprendo che in Giovanni non c'è proprio, e nei Vangeli sinottici compare solo tre o quattro volte. La parola «semi» e la parola «frutti», invece, compaiono ciascuna dieci o piú volte in tutti e quattro i Vangeli. C'è un motivo: per Gesú contano i frutti. Gli alberi buoni si riconoscono dai frutti; il seme che ha posto radici nel terreno buono è quello che ha fruttato dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno; i tralci che restano attaccati alla vite portano frutto. Una delle pochissime occasioni in cui compare la parola «radice» (o meglio il verbo «sradicare») è legata ad una domanda simile a quelle che stavo ponendo poco fa:

«Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?» Egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo». E i servi gli dissero: «Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?» «No», rispose, «perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e, al momento della mietitura, dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio». (Mt. 13, 27-30)

Dunque finché siamo su questa terra il confine fra bene e male è inestricabile, ramificato, profondo. Non coincide con i confini di nessuna istituzione, della famiglia, della Chiesa: figuriamoci se può coincidere con i confini dell'’Europa. Forse passa addirittura dentro ciascuno di noi. Le radici buone sono ovunque intrecciate con quelle cattive. Non esistono campi con radici buone e campi con radici cattive. Non basta nascere nel campo del padrone per essere certi di non finire nel fuoco, legati in fastelli. Non basta avere Abramo per padre per essere salvi: l'annuncio del Regno interpella da capo ogni generazione, ogni nuovo uomo, ogni nuova donna. Per salvarsi o per essere nel giusto non basta nascere nel popolo giusto, nella famiglia giusta, nel continente giusto. Ecco un'altra delle poche volte in cui compare la parola «“radice»”, in bocca al mio santo protettore, Giovanni il Battista:

Diceva alle folle che andavano a farsi battezzare: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente? Fate opere degne della conversione e non cominciate a dire a voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. Anzi, la scure è gia posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco». (Lc. 3, 7-9)

In questo stesso senso Paolo VI ricordò una volta che ogni generazione ha bisogno di essere evangelizzata. Ricordo a memoria (quindi non so se la citazione sia esatta) la sua frase, riprodotta sulla copertina di una rivista scout di quando ero ragazzo: “come nell'alta marea l'onda del mare entra sempre piú profondamente nella spiaggia, cosí ogni generazione ha bisogno di essere nuovamente evangelizzata, affinché il Vangelo penetri sempre piú profondamente”.

Pian piano la marea sale, con ogni generazione il Regno cresce; ma mentre la marea sale, l'onda continua a oscillare avanti e indietro: in qualche momento sembra perfino che il mare arretri, che il Cristianesimo sia in declino. Allora abbiamo paura, ci viene la tentazione di avere dalle Istituzioni, dai Governi, dal mondo quella sicurezza che sembra sfuggirci dalle mani. Ricordiamo il Vangelo alla rovescia, e ci chiediamo sgomenti: a che serve salvare l'anima, se poi perdiamo il mondo? Niente paura: se da un lato non mi entusiasma piú di tanto la retorica delle radici cristiane, dall'altro non mi convince neppure il pianto sul declino del Cristianesimo in Europa: la marea sale lentamene e a volte, sul breve periodo, l'onda sembra arretrare, ma credo proprio che il Signore ci regali onde sempre piú profonde. Credo che il Signore regali ad ogni generazione una pattuglia di cristiani: a volte piccola, a volte grande; a volte molto visibile, a volte quasi invisibile; ma sempre sufficiente a far fare al mondo, insieme agli altri uomini e alle altre donne, un passo avanti verso il Regno. Credo che il Signore fornisca sempre la quantità giusta di sale per rendere gustoso il nostro continente e il mondo. Per chi fa parte di questa sua pattuglia l'importante è restare attaccati a lui, alla vite, all'unica radice, al tronco di Iesse: all'unico capace di mantenerci, anche nei momenti piú bui, vivi luminosi e saporiti. Senza di lui, viceversa, non possiamo far nulla: se il sale perde il sapore, non c'è modo di restituirglielo. Non può riuscirci nemmeno il preambolo di un Trattato Costituzionale.