Educare alla cittadinanza, educare alla legalità

Giovanni Bachelet, Taranta Peligna, 25/5/2005

Ringrazio gli organizzatori e don Emiliano che è riuscito a farmi tornare qui a Taranta, nemmeno un mese dopo il Sentiero della Libertà. Ringrazio gli adulti, e soprattutto i ragazzi, per la loro grande attenzione, nonostante il sole che picchia. Spero di meritarla.

In questo incontro sono stato invitato a parlare non di don Puglisi, ma, nella sua memoria, di educazione alla cittadinanza e alla legalità. Un tema civile, e mi scuso in anticipo se risulteranno per me inevitabili molti riferimenti cristiani, certo appropriati alla memoria di don Puglisi, ma non necessariamente condivisi da tutti i presenti. In proposito vorrei dirvi che da parte mia questi riferimenti sono intesi come condivisione con voi di una storia, di una vita, di una motivazione d’impegno verso la comunità che non è l’unica possibile, ma vorrebbe anzi integrarsi e mescolarsi sempre meglio con quelle di tutti gli uomini di buona volontà, come ha insegnato a noi cattolici Giovanni XXIII. Anche per chi non condivide la fede cristiana, poi, la memoria di testimoni della Chiesa che si sono immolati per il bene comune, per la città, per la crescita civile del Paese, è preziosa e va conservata, a fronte di altri episodi da dimenticare –come l’affermazione, fatta a quanto si dice molti anni fa da un cardinale, secondo la quale la mafia non esisteva.

Un passo della Mishnah –che insieme al Talmud è uno dei testi ebraici piú importanti dei primi secoli dopo Cristo– dice che “i fondamenti della società sono verità, pace e giustizia, ma le tre cose sono in realtà una sola: la giustizia”. Infatti dalla giustizia, che poggia sulla verità, segue la pace. Simile, ma piú completa, è la definizione che apre la Pacem in Terris, cioè l’ultima lettera enciclica che Papa Giovanni XXIII scrisse nel 1963, poco prima di morire (avevo otto anni): “la pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà.”

Conoscendo un po’ la storia della Chiesa Cattolica e quella del mondo, l’aggiunta del quarto pilastro –la libertà– risulta decisiva. Prima di Papa Giovanni, per molti secoli, la Chiesa Cattolica aveva considerato la libertà un pericolo, una minaccia alla verità, all’autorità, all’ordine pubblico; quindi questa frase di Papa Giovanni spazza via in un sol colpo quel che ancora rimaneva di un’antica e tenace diffidenza della nostra Chiesa verso la libertà. Il pilastro della libertà aggiunto da Papa Giovanni esclude non solo ogni nostalgia cattolica dell’assolutismo, ma anche ogni laico totalitarismo: come purtroppo dimostrano la storia, la storia della filosofia e la storia della propaganda, una sacrosanta aspirazione alla verità, alla giustizia e all’amore, senza un sacro rispetto della libertà, può produrre non solo tribunali della Santa Inquisizione, ma anche Lager nazisti e Gulag comunisti.

Purtroppo anche della libertà si può fare cattivo uso. Leggevo tempo fa, in uno studio Eurisko-Istituto Cattaneo del 2002, che molti giovani fra i 15 e 18 anni stanno sviluppando una morale dell’illegalità e stanno crescendo senza virtù civili,. E mi tornava in mente una domanda posta dal cristiano Emmanuel Mounier nella prima metà del Novecento “a che serve la libertà se mi serve solo a scegliere fra la peste e il colera? E se gli uomini la disprezzano, non è forse perché non sanno che farsene?”, o la frase di un altro grande cristiano, Jacques Maritain, che negli stessi anni affermava: “nessuna democrazia può sopravvivere senza un nucleo morale minimo”.

A chi legge le conclusioni di quello studio viene da spaventarsi:

La percezione del bene comune, del valore della partecipazione, dei fondamenti costituzionali del Paese appare drammaticamente distorta. Sembra stia rapidamente prendendo piede un ethos consuetudinario e piuttosto incivile, che potremmo anche definire ‘immoralità’ […] orientato alla diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità, alla slealtà e al cinismo verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo dell’interesse personale sulla solidarietà e sulla disponibilità a fare sacrifici per il Paese”, come ha scritto recentemente il presidente dell’Eurisko Gabriele Calvi descrivendo gli studenti italiani “senza virtù civili”. Gli studenti paiono vittime di una pesante omogeneità culturale, nella quale svetta il primato del particulare sull’interesse collettivo e la forte critica verso i simboli nazionali e le istituzioni, critica che tende ad aumentare nelle regioni favorite a livello socio-economico ma che gradualmente tende ad uniformarsi anch’essa “al ribasso”, come scrive la suddetta ricerca, in una unità nazionale che sembra cementarsi nella sfiducia e nella diffidenza verso gli istituti democratici dello Stato.

Siamo, quindi, oltre un triste proverbio riportato da Ignazio Silone nel secolo scorso: “anarchici a vent’anni, conservatori a trenta”. Lo studio suggerisce che, ben prima dei vent’anni, i nostri ragazzi pensano già ai fatti propri.

Per chi ha cinquant’anni (io li ho compiuti tre settimane fa) e ha la fortuna di essere ancora in contatto, grazie all’insegnamento universitario, con i giovani, questo clima di declino culturale e morale, civile e politico – magari meno grave di quanto suggerisca lo studio appena citato, e comunque ricco di sfide e di opportunità – non è una sorpresa. Al contrario, appare da un lato riconducibile a radici lontane, e dall’altro, purtroppo, ancora lontano da un superamento. In altre parole l’impressione è che l’Italia e il mondo occidentale si trovino ancora in mezzo al guado. Qualcuno aveva colto le radici di questo imbarbarimento già molti anni fa, quando io ero un ragazzo:

...devo riconoscere che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana…

...c'è la crisi dell'ordine democratico, la crisi latente con alcune punte acute. Non guardate soltanto, amici, alle punte acute per quanto siano estremamente pungenti... Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell'autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né vincoli né solidarietà.

Sono frasi dell’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana, il 28 febbraio 1978. Dio sa se Moro non ha dovuto, di lí a poco, provare sulla propria pelle quanto fossero acute le punte del terrorismo: fu rapito e ucciso poche settimane dopo dalle Brigate Rosse. Eppure, lo sentite da queste parole, Moro aveva la capacità di guardare al di là della pur terribile emergenza di quegli anni, e di cogliere linee di tendenza, pericoli e obbiettivi di lungo periodo per la politica per la società.

Purtroppo proprio la morte di Moro segna, nei miei ricordi, la fine di un grande progetto di rinnovamento della politica italiana, e apre la strada a un brutto decennio, che si concluderà con la catastrofe di Tangentopoli nel 1992. Poco prima, nel 1991, anche i Vescovi italiani colgono la gravità della situazione e avvertono l’urgenza di “Educare alla legalità”, come dice il titolo di un indimenticabile (?) documento, che consiglio a tutti di rileggere perché ancora di piena attualità. Ma ormai è troppo tardi, il bubbone della corruzione scoppia fragorosamente, e intanto grandi cambiamenti – la fine del comunismo e la globalizzazione dell’economia – mettono in discussione anche su scala mondiale vincoli e solidarietà di un tempo. In Italia saltano anche antichi equilibri fra malavita organizzata e poteri locali e nazionali: sono gli anni delle stragi di mafia e del sacrificio di don Pino Puglisi, ma anche di Falcone e Borsellino e molti altri. Infine, e parliamo di anni vicinissimi, viene messa in discussione la legalità internazionale che vediamo calpestata sotto i nostri occhi con le tremende, inaccettabili novità della guerra preventiva unilaterale in barba alle Nazioni Unite, con la piú recente variante, sempre unilaterale, dell’esportazione armata della democrazia.

Un disastro annunciato e ormai inarrestabile? Una società nazionale e mondiale irrimediabimente rovinata dall’egoismo e dall’individualismo, non piú sotto il dominio della legge ma, a tutti i livelli, sotto il dominio dei forti, dei furbi e degl’imbroglioni? Non siamo mai caduti cosí in basso? Andiamoci piano.

Quando avevo vent’anni io, in Italia c’era il terrorismo. Ogni settimana morivano una o piú persone in qualche attentato. Sui treni, e in altri luoghi affollati, bombe di destra facevano periodicamente strage di civili innocenti; pallottole di sinistra hanno ucciso mio padre, e oltre a lui diverse centinaia di “servi dello Stato”; la loggia P2 era infiltrata in tutte le istituzioni; in un terzo dell’Italia spadroneggiavano mafia, ‘ndrangheta e camorra, senza ancora quasi nessun tentativo di rivolta politica e morale. C’era poi l’inflazione al venti per cento: in altre parole, se per comprare un panino ci volevano duemila lire, l’anno dopo ce ne volevano duemilaquattrocento. Nel mondo c’era il comunismo sovietico: la mia madrina di battesimo, in Germania Est, non poteva insegnare filosofia a scuola perché cattolica; e non poteva venirmi a trovare in Italia, perché prigioniera della “cortina di ferro”. Suo marito, medico condotto, era tenuto a fare una lezione settimanale di filosofia marxista-leninista ai suoi pazienti. Tutt’altro che formidabili quegli anni! La vita non era migliore di oggi. Secondo me era anzi peggiore allora. E ancora peggiore è stata per la generazione dei miei genitori, con l’esperienza drammatica della dittatura, della fame e della guerra. Per non parlare dei miei nonni, che di guerre ne hanno vissute due: prima di formare l’Unione Europea, i nostri stati si combattevano ogni trent’anni.

Comunque, migliore o peggiore, il fatto è che siamo chiamati a vivere questo tempo, ad affrontare le sfide di questo tempo, a provare a lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato – non a rimpiangere il bel tempo andato, a lamentarci del presente e fare gli uccelli del malaugurio per quel che riguarda il futuro. Se i giovani spensierati, egoisti e menefreghisti non sono lodevoli, anche gli jettatori non sono la compagnia piú gradevole. E quanti se ne incontrano, fra i progressisti come me! Da questo punto di vista è di nuovo, per me, riferimento essenziale l’insegnamento di Giovanni XXIII, il Papa di quando ero bambino: il Papa del Concilio, che invitava a non dar retta ai profeti di sventura e rimboccarsi, invece, le maniche per il bene del mondo. OK, siamo in mezzo al guado, c’è bisogno di analisi puntuali e di spinte energiche per uscirne: ci penseremo noi. Possiamo farcela? Sí. Con l’aiuto del Signore, aggiungiamo noi cristiani.

Se su un tema impegnativo come “L’educazione alla cittadinanza” si radunano qui a Taranta ragazzi e adulti, io dico che una parte di ciò che mi hanno insegnato la famiglia, la chiesa, la scuola – qualcuno degli ideali per i quali sono vissuti e a volte morti giudici, carabinieri, politici, giornalisti, sacerdoti come don Pino Puglisi – è già passato alla generazione successiva; e un pugno di ragazzi che non pensano solo ai fatti propri, anzi cominciano già a partecipare alla vita pubblica, sono piú che sufficienti per una buona battaglia. Non c’è bisogno di essere in decine di migliaia; e a volte un esercito di decine di migliaia di soldati può dimenticare che la vittoria viene dal Signore. Me lo ha insegnato papà, che amava molto il capitolo 7 del Libro dei Giudici. E’ il brano della Bibbia che abbiamo messo accanto alla sua fotografia, dopo la sua morte:

Il Signore disse a Gedeone: «La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato. Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro».

Del resto la storia –proprio qui a Taranta abbiamo rievocato quella dei Partigiani col Sentiero della Libertà qualche settimana fa– ci dice che un piccolo gruppo di uomini animati da una grande fede civile è sufficiente a inceppare la macchina del male.

Dunque, parlando di convivenza civile, legalità, impegno politico: arrivato a quasi 50 anni, quali ideali non sono tramontati? Su questi temi, che cosa mi hanno insegnato famiglia, chiesa, e scuola, che valga la pena di trasmettere alla generazione successiva?

Mi hanno insegnato, per esempio, che senza la legge il mondo è un campo di battaglia nel quale vincono i forti; che solo attraverso la legge si può trasformare questo campo in uno spazio giuridico nel quale possono svilupparsi libertà e uguali opportunità per tutti. Purtroppo non ho studiato legge. Ma noto con curiosità e ammirazione che, oltre a mio padre, si sono laureati in legge quasi tutti i miei eroi o maestri, come don Franco Costa, assistente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana ai tempi di mio padre, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Pietro Scoppola o Romano Prodi, e molti altri che non ho tempo di elencare ma sono stati estremamente significativi per la Chiesa, per il Paese, per l’Europa.

Mi hanno insegnato che la legge è la misura minima dell’amore, come dice S. Paolo; che la legge è vincolo di tutela e difesa dei piú deboli; che pagare le tasse e il biglietto dell’autobus viene prima e non dopo l’elemosina ai poveri.

Mi hanno insegnato che la democrazia e lo scambio anche vivace di opinioni sono l’unica alternativa alla dittatura: l’unico ambito nel quale la verità e la solidarietà possono, magari lentamente e faticosamente, farsi strada fra gli uomini di buona volontà.

Mi hanno insegnato, e parlo di maestri ed educatori ispirati tutti da altissimi principi cristiani e civili, che, nel tentare di tradurre questi principi nella vita comunitaria, e quindi nell’organizzazione civile e politica, nelle leggi, non c’è purtroppo una facile e ovvia ricetta da seguire; occorre invece ogni volta studiare la situazione e rischiare, sotto la propria responsabilità, la scelta di un ordine di priorità, di un programma, delle persone adatte per la sua attuazione. E si tratta quasi sempre di scelte discutibili, che non godono di quel grado di certezza e indiscutibilità della fede e degli ideali che ci ispirano. Mi hanno spiegato che in quest’impegnativo sforzo di discernimento (a) “non basta essere illuminati dalla fede ed accesi dal desiderio di bene per penetrare di sani principi una civiltà e vivificarla dall’interno. A tale scopo è necessario inserirsi nelle istituzioni e non si opera con efficacia dal di dentro delle medesime se non si è scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti." (Pacem in Terris), e (b) anche fra persone in buona fede, animate da identici sentimenti ed ideali, può capitare di non essere d’accordo sulle soluzioni da adottare.

Mi hanno insegnato, infine, che non ci si deve sottrarre a questo difficile discernimento, perchè trasformare il mondo, anche con la politica, è dovere di ogni cittadino, di ogni cristiano. E che chi lo accetta vive meglio di chi si fa i fatti propri! Qui ricordiamo purtroppo esempi di cittadini ai quali l’impegno sociale, civile, politico è costato la vita. Quando vedo le vostre fasce tricolori mi commuovo, pensando alla bandiera sulla bara di mio padre. E anche a don Pino Puglisi l’amore degli altri e la semplice fedeltà, come ci è stato ricordato da Diliberto, alla propria missione di parroco, è costata la vita. Ma non dovete pensare che sia questa la cosa piú importante, o, peggio, che a servire gli altri ci si rimette sempre. La cosa piú preziosa di questi testimoni non è stata la morte, ma la vita. Che è bella e comune ai tanti che, per fortuna, non hanno perso la vita e tutti i giorni –a cominciare dai vostri professori e da voi stessi, minisindaci– fanno qualcosa in piú del “minimo sindacale”. Perché nel servizio degli altri c’è la vera gioia, come ci ricordava all’inizio l’arcivescovo Bruno Forte con la citazione di Tagore, tanto caro anche a mio padre. Voglio richiamarlo:

Dormivo e sognavo che la vita era gioia.
Mi sono svegliato e ho visto che la vita è servizio.
Ho servito, ed ecco, il servizio era la gioia

Ecco, vorrei saper trasmettere il sorriso di mio padre, luminoso come quello di don Puglisi, che brilla nella grande fotografia, dietro questo palco. Dirvi quanto piena e felice possa essere una vita spesa al servizio degli altri. Rafforzarvi nella convinzione che già avete, visto l’impegno civile che vi raduna qui: nel servizio degli altri, nella partecipazione, c’è, sí, piú fatica, ma anche molta, molta piú gioia e piú allegria che a farsi i fatti propri, fra un telecomando e un videogioco. Vi auguro che la fatica e la gioia di una partecipazione responsabile alla vostra comunità vi accompagnino sempre, anche quando sarete grandi.